Incontri ‒ Una storia di amore per gli animali… fra solitudine, saggezza e serenità
Vivevo con lui da poche settimane, mi aveva subaffittato una camera. Originario di New York, faceva il manager in un ristorante di Englewood, a sud di Denver. Lo vedevo soltanto la sera tardi e poi usciva di nuovo per una mezz’ora ogni giorno. Non sapevo la ragione. A volte, nel tempo libero, suonava il violino e mi sembrava che fosse bravo. Un giorno gli chiesi come era nata la passione per questo strumento e mi rispose che era un musicista nella vita precedente, finché la precarietà economica lo spinse dritto a un bivio e scelse di cambiare città e lavoro.
In casa c’erano due cani e una decina di gatti. Sì, avete letto bene. Da una porticina entravano e uscivano quando volevano per andare nel giardino. Pensate che la casa fosse un porcile? No. Il mio coinquilino pagava una signora messicana che tutte le mattine eccetto la domenica faceva pulizie e spazzolava i gatti. Quando scelsi di vivere lì non mi preoccupò la situazione, sapevo di non essere troppo lontano dalla mia sede di lavoro e quindi pensai che per qualche mese potesse rappresentare un buon compromesso per me.
Una sera, incuriosito dalla sua ennesima seconda uscita quotidiana, cercai di capire meglio dove andasse.
«Hai voglia di farmi compagnia, Morgan?», domandò in inglese.
«Va bene…».
«Fra qualche minuto usciamo».
Ci recammo in un parcheggio di periferia. Aveva con sé il violino.
«Ora rimani in auto e guarda».
A quel punto accadde una di quelle magie che ancora oggi, se ci penso, sorrido. Tanto fu lo stupore. Lui a pochi metri da me, tenendo il violino sotto il braccio battè le mani e poi tirò fuori dalla tasca un campanellino. Lo fece suonare. Tin tin tin. Per dieci, quindici secondi. Dal buio e da ogni angolo comparvero decine e decine di gatti. Non so quanti fossero ma tanti. A quel punto, con i gatti davanti, iniziò a suonare il violino. Per qualche minuto mi sembrava di essere in un film, la melodia e gli animali attorno in silenzio. Avevo il finestrino giù perciò quando scrivo «silenzio» intendo silenzio.
Dopo alcuni minuti, riportò lo strumento in auto, aprì il bagagliaio e distribuì crocchette qua e là fra miagolii continui e abbastanza rumorosi. Una volta tornato dentro mi disse: «Scusami se non ti ho fatto uscire, ma temevo che potessero spaventarsi dato che non ti conoscono…».
«Ma figurati, non preoccuparti, capisco».
Mi raccontò che all’inizio erano pochi gatti e poi nel tempo il numero crebbe. A parte la magia della musica e del loro silenzio, che comunque già mi aveva lasciato senza parole, non riuscivo a capire il senso di quell’abitudine, che, per quanto nobile, mi pareva condizionante dato che lo faceva ogni giorno. Ricordo che nella mia testa pensavo a qualcosa di patologico. «Mi trovo molto meglio con gli animali che con gli umani e sto bene così», mi disse. Avevo capito un po’ di più il mio coinquilino e forse anche la sua solitudine.
Una vita che consisteva in lavoro e prendersi cura degli animali che avevamo in casa, oltre a quelli del parcheggio. Una dedizione genuina e una costanza inarrestabile che ancora oggi mi affascina se ci penso. Inoltre, un uomo di altri tempi, gentilissimo. Perfino in qualche momento di criticità che si era creato con me, aveva una rara capacità di non farmi mai sentire a disagio, cercando un compromesso intelligente. Nella sua giornata libera dal lavoro trascorreva il tempo a spazzolare i gatti, a giocare con i due cani, a suonare il violino e sorrideva. Ricordo il suo sorriso, spontaneo e di una persona che nonostante le scelte particolari trasudava serenità da ogni poro.
Le settimane diventarono mesi e prima di cambiare casa andai un’ultima volta nel parcheggio con lui. «Salutiamo Morgan» esclamò, per poi cominciare a suonare e in quel preciso momento, seduto in auto, ricordo che mi commossi. Avevo davanti decine di gatti in silenzio, un violinista e la situazione era del tutto surreale, come la prima volta.
Negli anni ho dato spazio a un pensiero diverso, all’inizio mi girava nella testa la parola «patologia», poi ho capito che era un mio limite, una forma di presuntuosa ignoranza. John provava amore per quegli animali, il suo impegno non era patologico, non era attaccato allo specismo, aveva una visione allargata e di sicuro più saggia di me.