CineMachine | Vivere (Ikiru,生きる)
REGIA: Akira Kurosawa
CAST: Takashi Shimura, Shinichi Himori, Haruo Tanaka, Minoru Chiaki, Bokuzen Hidari, Atsushi Watanabe
GENERE: Drammatico
DURATA: 143 minuti
DATA DI USCITA: 9 ottobre 1952 (Giappone)
Torniamo al cinema orientale. Torniamo al cinema drammatico. Torniamo alla nostra rubrica di CineMachine che sta crescendo, grazie a voi, cari lettori, e grazie al sottoscritto che trova sempre e volentieri un po’ di tempo per voi e per potervi raccontare qualcosa sul cinema. Questa settimana il film che ci terrei a consigliarvi è Vivere del maestro Akira Kurosawa del 1952.
Il film si apre sulla vita di Kanji Watanabe, un uomo alquanto anonimo, impiegato all’ufficio comunale come capoufficio della sezione civile. Egli è il perfetto travet: a capo chino, seduto alla sua scrivania, passa il tempo a timbrare ed inoltrare agli altri uffici le richieste dei cittadini, tra le quali spicca quella di alcune povere donne che chiedono al comune di svolgere dei lavori di bonifica in una la zona vicino alle loro abitazioni, oramai diventata pestilenziale. Il sig. Watanabe non se ne preoccupa. Timbra e passa la richiesta come gli è solito fare.
Eppure, ci è anticipato, già dalle primissime scene, che il sig. Watanabe sta per morire. Un cancro allo stomaco, incurabile, gli ha lasciato poco più di un anno di vita. A tale notizia egli comincia a domandarsi, impaurito ed atterrito, come ha vissuto la sua vita e che cosa fare con il tempo che gli resta. Forse la consapevolezza di essersi sempre accostato alla vita, senza averla mai realmente vissuta a pieno, comincia a farsi strada nella sua mente.
Comincia così un bel viaggio ascensionale. In un primo momento il vecchio si accosta ai comuni piaceri del bere, del gioco e della compagnia femminile. Tali discrezioni però hanno vita breve. Watanabe è atterrito e non si presenta più al lavoro per diversi giorni. Il rapporto con il figlio Mitsuo e la nuora, alquanto distaccato ed introverso, non aiuta il vecchio, il quale non rivela a nessuno dei suoi cari il suo grave stato di salute. In un secondo momento, però, Watanabe riesce a stare bene grazie alla compagnia di Toyo, una giovane collega di lavoro. Tuttavia la giovane ragazza, osservando l’ossessione che ormai il vecchio nutre nei suoi confronti, comincia a distanziarlo sempre di più. Alla fine, al nostro protagonista si rivelerà la soluzione per poter vivere pienamente il suo ultimo anno di vita. Egli decide, in un lampo di energica follia, di dedicarsi, animo e corpo, alla costruzione di un giardino, ascoltando ed adempiendo così alla richiesta delle povere donne che avevamo visto all’inizio del film.
Non è solamente un atto di misericordia quello che Watanabe decide di fare, ma è un qualcosa di molto più vivo e sentito. Il protagonista non decide di addentrarsi nel marciume del sistema burocratico e portare a termine questa “mission” per avere un qualche riconoscimento, ma compie questa scelta perché lo può fare, perché sente che, finalmente, ciò lo fa sentire vivo.
Ciò che Kurosawa ci presenta non è solamente un semplice dramma che tratta della vita e della morte, ma è una grandissima e meravigliosa meditazione sul senso profondo che queste due grandi tematiche hanno nell’ambito delle nostre vite. Lo sguardo con cui Kurosawa guarda al momento in cui Watanabe realizza il senso della sua esistenza, è profondamente riempito da una prospettiva intellettuale cosmopolita, la quale non si limita alla singola vita di quel personaggio né alle circostante in cui esso si viene a trovare, ma raggiunge la vita di ognuno di noi.
“Che cos’è la vita?” si chiede Kurosawa. È il continuo agire di una persona nel corso del tempo? È, quindi, alla fin fine, un’abitudine? Non siamo noi a scegliere di venire al mondo, ma Kurosawa ci dice che ci è concesso decidere come vivere la nostra vita e ci da una possibile soluzione, ovvero scegliere di dedicare i nostri sforzi alla realizzazione di qualcosa di più grandi di noi, ovvero del bene per gli altri. Watanabe si impegna fino in fondo a realizzare a bonificare la zona dove centinaia di famiglie vivono, perché sente che quello è il suo scopo, è quel bene che stava disperatamente cercando. Quindi, se farai del bene agli altri, farai del bene anche a te stesso. Morale non così scontata, come in molti possono pensare.
Vediamo, in ultima, i colleghi del l’oramai defunto Watanabe contendersi il merito dell’opera, dicendo che il vecchio aveva solamente dato l’avvio ai lavori, quando, in realtà, era stato egli stesso ad affrontare il sindaco e degli strozzini che volevano costruire una sorta di casinò in quella zona. Questi personaggi vogliono seguire l’esempio del loro superiore, ma sembrano non esserne in grado. Nell’ultima scena rivediamo i ritmi del comune riprendere la normalità, simbolo di un sistema profondamente insensibile ed assuefatto alla comodità di una poltrona ben retribuita.
“Vivere, non riesco a vivere” cantava Giorgio Gaber nella sua canzone Far finta di essere sani. Watanabe è l’uomo medio che non riconosce più il valore della propria esistenza e non gli da più peso, se non quando capisce che la sta per perdere. La morte, paradossalmente, risveglia la vitalità di questa persona e la porta a sviluppare un senso profondo della sua umanità, indirizzandola a chi ne ha più bisogno e diventando un vero e proprio esempio da emulare.
Vi lascio con questo pensiero:“Non aspettare di finire l’università, di innamorarti, di trovare lavoro, di sposarti, di avere figli, di vederli sistemati, di perdere quei dieci chili, che arrivi il venerdì sera o la domenica mattina, la primavera, l’estate, l’autunno o l’inverno. Non c’è momento migliore di questo per essere felice”. La felicità può essere in ogni giorno, se riuscirete a capire che la vostra vita non è insensata e non è solamente un turbinio di minuti che corrono inesorabilmente verso la vostra dipartita, ma la vostra vita è, appunto, vostra. Siatene entusiasti più che potete e non sperperate il tempo nell’abitudinarietà.
È il senso che noi diamo alle cose che insaporisce la nostra esistenza ed anche la morte, se vista con questa ottica, diventa un semplice passaggio che, prima o poi, tutti ci troviamo ad affrontare, come il nostro Watanabe che, nel finale, si culla dolcemente su una altalena del giardino che ha costruito. Sotto la neve, sta per morire, ma felice, perché sa che la sua vita, anche se per poco, ha avuto un senso. Watanabe si fa monito di un idea, di una consapevolezza, ovvero che ogni giorno, in ogni momento, la vostra vita può cambiare.