Dall’Adriatico all’Atlantico in bici sulla via di Santiago. “Fatica e avversità? Felicità pura”
Venti giorni in bicicletta da Vicenza a Santiago di Compostela e Finsterre. 2.700 chilometri in solitaria, con un dislivello totale di 20 mila metri. Li ha percorsi Giorgio Zebele, operatore nell’ambito della cooperazione sociale vicentina, e ora sono raccolti in un libro, “Perdersi – Lungo il Camino de Santiago di Compostela”. Partito il 2 maggio scorso, Zebele è tornato a casa il 21 maggio dello stesso mese, quando ha preso l’aereo da Santiago con destinazione Orio al Serio, dove è stato “recuperato” dalla sua famiglia. “Il viaggio l’ho fatto da solo – racconta – ma in realtà scrivevo e mandavo il diario del viaggio quotidianamente a una quindicina di persone, diventate più di cinquanta durante il percorso, perché molti hanno chiesto di aggregarsi. Alla fine è stato come farlo assieme”.
Giorgio, cosa ti ha spinto a tentare questa impresa?
“Durante gli ultimi anni diverse persone mi avevano parlato del Camino di Santiago, proponendomi di farlo. Non mi sono mai aggregato, un po’ per motivi di lavoro, un po’ perché scettico sull’esperienza e anche perché, in un certo senso, sta diventando sempre più di moda e io appena annuso odore di trend scappo dall’altra parte. Sono un po’ un orso e intrupparmi in mezzo alla folla non mi attira mai. Lo scorso anno però mi sono lasciato convincere da Franco Fontana, un amico e compagno di avventure, a percorrere in bici la via Francigena da Fornovo a Roma, partendo comunque quasi da casa, e così mi si è istillato l’interesse per i Cammini fatti in sella. Poi come al solito ho voluto andare oltre, perché non mi basta mai. Ma le motivazioni sportivo-culturali erano subordinate ad un’altra, più simbolica, esistenziale direi: ho definito il mio viaggio ‘Dall’Adriatico all’Atlantico’. Sono andato apposta in bici a Venezia due giorni prima di partire. L’idea era di costruire un ponte tra casa, una cultura, una civiltà, e altre case, altre culture e civiltà, una sorta di tentativo di esprimere vicinanza a chi vive sulle rive dell’oceano, dell’Atlantico in questo caso, ma per estensione su tutte le rive del mondo, un’idea di un abbraccio globale. Forse un po’ troppo ambizioso, ma ognuno si fa in testa i suoi film”.
Quali sensazioni hanno accompagnato questo viaggio?
“Montagne e fiumi di sensazioni, pensieri, emozioni, così forti e senza filtri che sentivo la necessità di condividerli con chi incontravo e con coloro ai quali scrivevo. E poi di fissarli in modo stabile per potermene abbeverare anche in futuro. Il Camino, il dedicarmi tempo, mi ha costretto a guardare panorami esteriori ed interiori spesso sconosciuti o, almeno per quelli interni poco definiti, e mi ha spinto a raccontarli a chi faceva un pezzetto di strada con me o a chi mi leggeva da casa. E farmi scrivere del mio profondo così tanto, un diario e poi un libro intero, e per farmelo condividere con così tanta gente, beh, penso sia un vero miracolo. Detta così sembra un bel libro per educande, ma in realtà c’ho messo dentro anche tanta fisicità, sudore, sconforto, follie, invettive, pensieri eretici, autoironia, anche se sono l’ultimo che può giudicarla tale”.
Quali sono stati i momenti più difficili e quali le soddisfazioni o i momenti positivi?
“Difficili sono state le rinunce: rinunciare a salire la val di Susa e il Monginevro per la neve, pedalare contro vento in Camargue e nella Gallia narbonese e non riuscire ad arrivare dove mi ero prefissato il mattino, prendere una strada alternativa alla Via delle Aquile sui Pirenei per una tendinite e impormi di rallentare e lasciar che facesse meno male. A parte sopportare anche una mattinata piuttosto fredda in Galizia prima di arrivare a Santiago, non ricordo altri momenti difficili. Tutto il resto è stata felicità pura, anche gli acquazzoni o il sole cocente, le forature e gli altri guasti meccanici, le salite verticali che costringevano a scendere di sella e spingere, la gente che russava in camerata, il non sapere mai dove dormire la sera: pura vita che un ‘pellegrino’ mette in conto quando parte. E se queste avversità le consideri felici, ti puoi immaginare come si vivono le belle cose”.
Che tipo di preparazione richiede un viaggio del genere in bicicletta?
“Tutti possono farlo, il Camino de Santiago, basta un po’ di allenamento e dosare le distanze in base alle proprie forze. All’inizio ci si annoia un po’, ma poi prende il sopravvento il piacere endorfinico che il corpo ti restituisce, anche durante l’allenamento. Le lunghe distanze non sono più un problema. Dopo la Francigena nel 2016 non avevo più toccato la bici, solo lunghe passeggiate mattutine con Marvin, il border collie che ci ha adottati. Da settembre dell’anno scorso sono risalito in sella solo a marzo e con tre uscite alla settimana, di 50 chilometri in media e un po’ di dislivelli sui colli Berici, e qualche giro più lungo nei festivi, il 2 maggio ero pronto. Solo due mesi di allenamento. Certo che se uno non ha mai toccato la bici deve prevedere almeno il doppio. Ma ognuno può scegliere il modo: a piedi, in bici, con il cavallo o il mulo, con l’handbike, in un senso o in quello opposto, tutto d’un fiato o un po’ all’anno, da solo, in coppia o in gruppo, in silenzio o cantando (senza disturbare gli altri), velocemente o lentamente, sostando spesso o senza tregua… Raccomando però di partire in un periodo non troppo caldo: maggio è un buon compromesso. E non ci sono le folle di luglio e agosto”.
Il cammino di Santiago è prima di tutto un cammino spirituale. Ecco, da questo puno di vista spiritualmente cosa ti ha dato questo viaggio?
“Potrei dire tante cose, ma ti lascio alle parole del diario che sicuramente sono più spontanee.
Non avevo fatto più esercizi spirituali dal 1985 e non ne sentivo la mancanza. Questo deserto laico che sto facendo è molto meglio, molto più profondo e soprattutto vero, almeno per le mie corde, cercato con forza e non preconfezionato. Anche se me ne sono reso conto, come dire, cammin facendo. Non era nelle intenzioni prima della partenza. Nei secoli scorsi chi voleva andare a Santiago (o a Roma, o a Gerusalemme…) partiva da casa, vicino o lontano che fosse, faceva testamento perché non sapeva se tornava vivo, se la faceva tutta a piedi, a meno di non possedere un mulo o un cavallo, e una volta mantenuto il voto, se ne tornava per la stessa strada. Un po’ di questo spirito me lo sono sentito mio: partire da casa, fatto; il testamento, fatto, è questo che sto scrivendo a puntate; il mulo, fatto, a due ruote ma ce l’ho. Cosa cerca qui così tanta gente (a proposito di Lourdes prima e Santiago poi)? Consolazione, miracoli, spiritualità? Mi è tanto sembrato un supermercato del sacro. I mercanti del tempio all’ennesima potenza. Ma come giudicare chi viene qui con speranza? Non sono tutti pellegrini? E soprattutto, chi sono io per giudicare? E Dio poi, c’è o non c’è? Chi sono io per saperlo? Umanamente è impossibile. Mi ritrovo molto nelle parole di quel santo rabbino che, interrogato se crede in Dio, risponde democristianamente: “Io, grazie a Dio, sono ateo”. Penso sia importante dare un senso alla propria vita, uno scopo che la renda unica, e cercare un pizzico di felicità assieme a quelli che camminano con noi lasciando il pianeta un po’ meglio di come l’abbiamo trovato. La forma, o la Persona, attraverso la quale cerchiamo tutto questo è a piacere.
E l’incontro con la gente lungo il Camino è diventato spontaneo: nei rifugi la sera o quando mi fermavo per prendere fiato e per sgranocchiare qualcosa parlavo con tutti, e tutti mi chiedevano. Sembra quasi che basti fare il Camino per vedere cadere ogni barriera sociale. E l’orso per un po’ lo metti in letargo. Questo penso sia il vero miracolo del Camino!”.
Consiglieresti questa esperienza?
“Quello che posso consigliare di sicuro è questo: prima o poi prendetevi un po’ di tempo per voi. Ne vale la pena. Per molti è difficile decidere di andare: pericoli, stanchezza, lingue diverse, costi, mancanza di tempo, impegni non rimandabili… Mille possono essere gli impedimenti, ma almeno una volta nella vita provate a costruirvi le condizioni adatte per farlo. Da che mondo e mondo i nostri avi si sono presi del tempo per andare oltre la quotidianità, con le più svariate motivazioni. Al di là di quali fossero, cambiare ritmo ci permette di ragionare sui nostri ritmi e fare il tagliando al motore. Non è importante fare questa esperienza nel cammino verso Santiago, ci sono mille altre potenziali mete. Ma Santiago aiuta molto, se hai lo spirito giusto e se non ti fai invischiare dal business che gira attorno al Camino”.
(Il ricavato della pubblicazione del libro, che può essere richiesto scrivendo a giorgio.zebele@cosmosociale.it) va a finanziare il Progetto Gaviota in Salvador e Guatemala a favore dei ragazzi a rischio di affiliazione nelle bande criminali giovanili, le “maras”. È un progetto sostenuto, tra gli altri, anche dall’associazione “Il Mosaico Onlus” di Vicenza – una delle cooperative per cui lavora Giorgio Zebele – ed è il progetto scelto per festeggiare i trentacinque anni di attività della cooperativa. Per donazioni al progetto è possibile fare un bonifico a Il Mosaico Onlus – IBAN IT33G0200811802000007534532 – indicando nella causale: “Offerta liberale per progetto Gaviota”).