Risarcimento milionario per la famiglia del dottor Demo, medico anestesista ucciso nel 2018 da un batterio killer
Il calvario patito dal dottor Paolo Demo, morto ai primi di novembre del 2018 in seguito all’infezione di un microbatterio nocivo – il Chimera -, ha trovato una prima sentenza che gli rende giustizia, per il momento sul piano civile. Quasi tre anni prima, nel gennaio del 2016, lo stimato medico specialista in anestesia, operante proprio nel reparto di terapia intensiva presso l’ospedale San Bortolo di Vicenza, fu operato al cuore per la sostituzione di una valvola aortica.
Un intervento delicato pienamente riuscito sul piano strettamente tecnico ma che, a causa dell’utilizzo successivo di un macchinario per il ricircolo del sangue extracoporeo risultato difettoso, portò con sé delle conseguenze inattese e alla lunga letali per il fisico del dott. Demo. Raccontate per filo e per segno in un diario che il medico vicentino aveva tenuto – forte della sua competenza in campo scientifico-ì e sanitario – nel percorso di accertamenti e cure successive, fino al peggioramento repentino delle sue condizioni di salute, e al triste epilogo del 2 novembre 2018. Aveva 66 anni.
In seguito alla sua morte, poi, i familiari intentarono una causa contro Ulss 8 Berica e la ditta produttrice del dispositivo finita sotto inchiesta per appurare le responsabilità di ciascuno in merito alla perdita prematura del proprio congiunto. Una volta appurato che il congegno acquistato e messo a disposizione dell’ospedale era infetto, la sentenza non ha potuto che rilevare la colpevolezza in solido dei due enti imputati, che dovranno sborsare in solido 1,2 milioni di euro alla famiglia Demo a titolo di risarcimento. A firmare nei giorni scorsi la sentenza il giudice Eloisa Pesenti del Tribunale Civile di Vicenza.
Non si tratterebbe dell’unico caso di infezione derivata dal macchinario, in quei mesi, poi sostituito ma solo a titolo precauzionale a quei tempi, ma di sicuro il più eclatante, con la dimostrazione del nesso di casualità ora accertata considerando il memoriale scritto di proprio pugno dal medico esperto, divenuto paziente suo malgrado. Tanto che la Regione Veneto, visti i procedimenti penali aperti in seguito ai contagi, avviò una campagna di richiamo dei pazienti sottoposti alle medesime operazioni con utilizzo del procedimento sotto inchiesta, per il sospetto che la contaminazione del dispositivo potesse aver causato altri casi analoghi.