Sanità veneta, Leoni (ex dirigente Ulss 4): “Ci sono criticità, ma siamo più in salute di quello che pensiamo”
“Siamo uno dei Paesi più sani al mondo”. Parola di Alberto Leoni, laureato in psicologia e psicoterapeuta, nonché ex dirigente sanitario con esperienza in molteplici campi (disabilità, salute mentale, problemi dei giovani e dipendenze). “Abbiamo un sistema sanitario nazionale universalistico, di cui dobbiamo essere orgogliosi”, aggiunge. Tuttavia “negli ultimi vent’anni alcune scelte non sono state azzeccate”.
L’intervista, per la rubrica Eco dei Comuni di Radio Eco Vicentino, è stata l’occasione per passare in rassegna lo “stato di salute” del sistema sanitario veneto, delineandone, da un lato, le qualità e, dall’altro, le problematiche con le possibili soluzioni.
Ascolta “Come sta la sanità veneta? Con Alberto Leoni” su Spreaker.Dottor Leoni, lei è un ex dirigente sanitario di lungo corso, che fu in forza all’Ulss 4 prima della riorganizzazione delle aziende sanitarie territoriali. Come sta oggi la sanità veneta?
“Nonostante le vicissitudini degli ultimi anni, importanti studi sullo stato di salute a livello mondiale, come il Bloomberg Index, collocano sistematicamente l’Italia nei primi quattro, cinque posti. Nel 2019 eravamo addirittura al primo posto. Ci seguono la Spagna, Singapore, i Paesi nordici. Molti Paesi ricchi sono nettamente distanziati in questa classifica, a partire dagli Stati Uniti”.
Tuttavia, da troppo tempo, sempre più persone in Italia deve scegliere se curarsi oppure comprarsi da mangiare.
“Questo è un grande problema, legato anche alla crisi economica e alla perdita del potere d’acquisto. Serve, per curarsi bene, una nuova medicina di base. L’Italia forma tra i migliori medici al mondo, anche in Veneto: abbiamo delle università che sono davvero all’avanguardia. Poi però vediamo che un migliaio di ragazzi laureati, ogni anno, se ne vanno all’estero ad esercitare la professione. A questi giovani dobbiamo assicurare la possibilità di diventare dei grandi professionisti. Ma non è solo una questione economica: si tratta anche di offrire una prospettiva di lavoro dignitosa, ricca di stimoli, ma che consenta di avere anche una vita privata”.
Quanti sono i Paesi al mondo che hanno un sistema come il nostro, finanziato tramite le imposte e che garantisce l’acceso a tutti?
“C’è una notevole differenziazione dei sistemi. Alcuni sono universalistici, finanziati dalla fiscalità generale, come in Gran Bretagna e Italia. In Europa poi ci sono sistemi misti, tra pagamento fiscale e assicurazioni private. In Germania, ad esempio, funziona così”.
E gli Stati Uniti?
“Quello americano è il classico sistema basato proprio sull’assicurazione privata. In termini di salute non hanno delle grandi performance: sono all’ottantaquattresimo posto. Hanno una grande capacità nell’ambito delle specializzazioni, ma hanno completamente trascurato la medicina di base”.
Molti cittadini rinunciano ad accedere al sistema pubblico. C’è stata una qualche trasformazione “genetica” del nostro sistema sanitario, per cui non è più un sistema universalistico, per tutti?
“Io sarei ottimista. Il nostro è ancora un sistema sanitario universalistico, e tale dovrà rimanere. E tuttavia, sono state compiute delle scelte errate. Ad esempio, non sono stati curati i fabbisogni dei professionisti medici e infermieristici. Le borse di specializzazione non sono del tutto utilizzate e in alcune specialità ci sono preoccupazioni serie, come nel pronto soccorso, in infettivologia, diagnostica e medicina di base, dove molti posti restano vuoti. È proprio su questo invece che dobbiamo lavorare in futuro”.
Togliere il numero chiuso?
“Io non credo che sia la misura essenziale da prendere. Se noi guardiamo al numero di medici che abbiamo in Italia è nella media europea, quattro per mille. Quindi è un dato sufficiente, ma sono distribuiti male per specialità. La vera riforma da fare è sulle specializzazioni: i ragazzi non si iscrivono ad alcune di esse, come ad esempio tutte quelle sulla medicina di urgenza ed emergenza, perché non sono molto attrattive, sono difficili e non hanno un ‘mercato’ privato. Quindi dobbiamo iniziare a creare differenziazioni in termini di percorso e differenze anche retributive. Un medico del pronto soccorso, del Suem 118, deve guadagnare di più rispetto ad altri colleghi che lavorano in altri settori. Ed ancora: occorre anche togliere ad esempio al medico di base le competenze burocratiche per affidarle ad un amministrativo nelle Medicine integrate, o altre competenze sanitarie per darle ad un infermiere capace, oggi laureato. Un infermiere autonomo è in grado di sollevare il medico di base da molte funzioni”.
Da un lato manca il personale; dall’altro, le Ulss si affidano a medici a gettone. Non è un sistema che incentiva ad andarsene dal pubblico?
“Le risorse che,in emergenza, vengono spese per i gettonisti devono essere riutilizzate anche per trovare altri medici, magari anche da poco pensionati, che abbiano voglia di rimettersi in gioco. Poi si deve risolvere il problema delle liste d’attesa troppo lunghe, appesantite da visite che in realtà non servono, perché figlie di medicina difensiva. Molte sono inappropriate! Si devono certamente adeguare gli organici, in modo da garantire un maggior numero di ore di prestazioni specialistiche. Inoltre, questa la scelta del futuro, il medico di base dovrebbe essere affiancato dallo specialista attraverso il teleconsulto. Nessuno può più lavorare da solo. Questa connessione aumenterà la qualità del sistema sanitario, e ridurrà drasticamente le liste d’attesa”.
Gabriele Silvestri