Spettacolando – L’Arlecchino di Pennacchi conquista il pubblico vicentino
Martedì 26 e mercoledì 27, con doppio sold out, il Teatro Comunale di Vicenza ha ospitato sul palco Arlecchino? scritto e diretto da Marco Baliani, interpretato da un nome d’eccezione.
Il problema è che non si riesce più a distinguere Andrea Pennacchi dal Pojana, ormai fusi nello stesso mutante, un’entità indefinita confluita in un nuovo Arlecchino.
Lo schiavo burlone e pasticcione di due capi, nota maschera veneziana della commedia dell’arte, viene in realtà dalla tradizione bergamasca da un lontano 1550. Nei secoli la storia del servo di due inconsapevoli padroni, è stata interpretata e riprodotta, ma forse mai come in questo momento storico, la comicità si fa amara, a volte nemmeno distinguibile dalla realtà.
Capita sempre più spesso di vedere comici spaesati, i cui copioni satirici potrebbero essere sostituiti dalla pura cronaca: il problema non è solo nel trovare ex giullari di corte nel ruolo di politici, ma nel vedere politici atteggiarsi più o meno consapevolmente a clown.
Lo spettacolo non nasce coi migliori auspici, perché a causa di un malore l’attrice protagonista è stata sostituita da una pur bravissima interprete costretta però a recitare con il copione in mano. Lo spettacolo deve continuare oramai è legge, non più vera scelta: lo si fa per rispetto del pubblico, degli organizzatori, degli attori stessi, forse anche loro in fondo schiavi della partita iva, il vero grande unico padrone.
E’ comunque Pennacchi la vera star (e che naturalmente interpreta Arlecchino), quello che va in televisione e che avvicina al botteghino anche i neofiti. Ma è il Pojana quello che fa le battute da bar politicamente scorrette, battute che poi sentiamo riprese senza distinzione nei consigli comunali come in parlamento da quelli che parlano come noi e che noi abbiamo scientemente mandato a rappresentarci. Quelli come noi che da servi sono diventati padroni, senza però il tempo di maturare le difficoltà dei ruoli né di comprendere come comportarsi.
Senza distinzione di sorta siamo così finiti col fondere la risata amara con quella liberatoria, senza saper più distinguere l’inganno dal normale adeguato comportamento. Le furberie mescolate con le tecniche di sopravvivenza, la sopraffazione allineata all’inconsapevole esercizio del potere. Il discrimine come vanto di appartenenza, le battute razziste come accoglienza del politicamente scorretto: una commedia che non è più trasposizione artistica della realtà ma la realtà stessa che non riesce più a distaccarsi dalla tragicomica commedia, né a scrollarsela dalle spalle.
In un mondo social, dove siamo abituati a multiple forme di comunicazione senza identificarci in alcuna, dove noi tutti siamo servi di ben più di due padroni, Arlecchino ci sembra una versione semplificata della vita occidentale: di noi ricchi privilegiati capaci di trasformare in un inferno il paradiso che avevamo a portata di mano.
Questo Arlecchino, forse non ci basta più.
Paolo Tedeschi