Into the wild – Il Cervino, quando una montagna riflette coraggio e paure
Me li immagino qualche volta i miei due zii bambini, impegnati per gioco a salire quel traliccio. Me ne hanno parlato in tanti di quel giorno del 1942, tutti in paese ricordano dov’erano in quel momento. Fernando se ne scappò via e non ne parlò mai più, Renzo era appena rimasto lì a terra travolto da una scarica elettrica. I suoi piccoli coetanei appresero, protetti, nei modi più diversi di cos’era successo al loro piccolo compagno di giochi. Oggi hanno tutti ben oltre ottant’anni ma ancora ricordano, lo strazio di quel dolore indicibile. La nonna conservò per sempre un piccolo brandello della sua camicetta, monito per noi tutti nipoti del pericolo a cui si può andare incontro.
Strano come tutto questo possa venire in mente nel bel mezzo dei miei giorni svizzeri alpini. Il viaggio in treno sul Glacier Express, lasciato il paradiso dell’Engadina, conduceva la mente al lento ritmo della riflessione, al gustarsi lo splendore dei verdi pascoli che attraversavamo. Tutto sembrava riassumere il riposo: l’intimità delle gole del Reno, le lente curve della ferrovia retica scendere dall’Oberalp verso Andermatt, la necessità dei giorni agiati, quasi il bisogno di non fare assolutamente nulla. Avevamo lasciato St. Moritz con l’idea di fermarci e l’attraversare la terra dei Walser ci sembrava proprio questo; viaggiavamo lenti verso uno sguardo alla montagna più iconica che vi sia: aspettavamo solo il Cervino.
“Allegra!”, il saluto romancio, quasi il nostro ciao, che tutti rivolgono in Engadina, non contrastava per nulla con le lingue che si parlavano in treno. Il mondo sa essere la nostra casa, se la curiosità di conoscerlo cresce insieme a noi. Faceva specie vedere l’unica passeggera svizzera sola, tra una famiglia indiana di fronte che si parlava in spagnolo, tre signore inglesi chiacchierare tra loro a bassissima voce e una coppia di lingua tedesca testimoniare tutto il loro silenzio. Si intuivano vacanze molto differenti tra i passeggeri, tra chi esibiva il proprio status, chi pensava a starsene tutto solo e chi contemplava sino in fondo quel giorno intero in viaggio tra le Alpi.
L’arrivo a Zermatt, è particolarissimo: nessun veicolo a motore, un sacco di fattorini impegnati a consegnare valigie agli alberghi, risciò che si spostano, assoluto silenzio del traffico. Subito comprendi che se cercavi tranquillità quello è il tuo posto, gente in relax, tantissimi giovani. Vita mondana per qualcuno, pochi, vita sportiva per molti altri; su tutto il frastuono dell’assenza di qualsiasi rumore. Attraversano la strada ragazzi con la tavola da snowboard, sciatori appena scesi dalle nevi dei ghiacciai, appassionati di rafting di ritorno dal loro divertimento di giornata, persino chi pratica il parapendio. Tutti appena scesi a valle in riva al Visp, dopo aver affrontato il divertimento e il pericolo degli sport di montagna, riuniti la sera come comunità sportiva eterogenea sotto il Cervino.
Il Matterhorn è lì, già duecento metri dopo la stazione, imponente. “A scuola quando il maestro ci diceva di disegnare una montagna, tutti, senza saperlo o intenderlo, disegnavamo il Cervino”. Poteva Gaston Rebuffat, alpinista francese e scolaro cresciuto in Provenza, spiegar meglio perché il Cervino rappresenta la quintessenza della montagna? Una piramide perfetta, mille metri sopra la base circostante, quasi tremila metri più in alto di dove sei. Lì a far mostra di se, a dirti io sono qui, a far scintillare la curiosità di chi vorrebbe risalirlo, a farsi ammirare da chi mai penserebbe di scalarlo, a seminare domande a me, che mai oggi potrei pensare di raggiungerlo. Quasi fosse lui, oggi per me, il traliccio dei miei zii, senza l’incoscienza, l’ardore e la giovinezza loro; con la ragione che fa a pugni con il mio desiderio, solo di questi anni, di salire sempre più in alto.
Domande piccole, banalità, curiosità che in un giorno divampano.
Il giorno è il successivo quando da Zermatt puntiamo a salire a piedi. Ritmi lenti, nessuna corsa oggi, solo contemplazione di quello che la montagna sa farti vivere. Destinazione Sunegga, verso il giro dei laghi, fino al laghetto di Stellisee, dove il Cervino si specchia tutto il giorno. Siamo già ben oltre quota duemila, al sole, lontano ancora dai ghiacciai. Lo spettacolo è mozzafiato, ti senti parte di chi vive la montagna a piedi. Due chiacchere con padre e figlia catalani, foto di rito con coppia di inglesi. Breve scambio di informazioni con un ragazzo tedesco. A guardarlo da qui Matterhorn sembra inviolabile per chiunque, tanto si mostra verticale.
La giornata intera conduce sempre più in alto, cambiano i programmi, saliamo il versante al sole e l’obiettivo diventa presto Gornergraat. La vista spazia sempre più, superiamo l’avvio delle piste invernali. Nemmeno immaginiamo come là, proprie dove arriva un’arditissima ferrovia, in un attimo si passa dalla prospettiva assolata rivolta verso Zermatt alla cornice dei ghiacciai che dal Monte Rosa vanno fino al Cervino. Saliamo fino ai 3135 metri della nostra cresta, riposando ciascuno. In un attimo l’incanto della solitudine tra i trentotto quattromila che circondano il luogo, di fronte Matterhorn a far rimbombare le piccole domande di ieri.
Sei solo pochi metri sopra a chi, con le sneakers ai piedi, in treno arriva fin qui. Solo pochi metri sopra, tu che da stamattina sei salito fin qui a piedi. Di fronte hai la lingua di ghiacciaio che scende dal Monte Rosa, in mezzo il fascino di attraversare le nevi, la risalita in cordata, lo sci fuoripista, l’alpinismo che porta alla vetta. Di colpo senti che oltre non puoi andare, che dovresti attraversare il ghiacciaio tra i crepacci per poter salire oltre, metterti ad arrampicare, provare il brivido che la vita non ti ha fatto ancora conoscere. Cerchi la temerarietà dei tuoi zii, ma non la trovi. Prigioniero quasi delle abitudini che nella vita hai consolidato. Sono solo cinque minuti, eppure sembrano eterni.
Ripensi alle preoccupazioni continue trasmesse dai familiari, memori di una tragedia, ti senti un po’ l’eredità di quelle paure. Pensi al tratto di vita migliore che è già passato; di fronte hai lui, il Cervino, e vorresti provare a salirlo. Per la prima volta vorresti davvero tornare indietro, riprendere i tuoi vent’anni, anche solo i trenta e vivere la montagna dove non l’hai mai vissuta. Ripensi agli amici del cuore che prendevi in giro a vent’anni, quando, loro si, risalivano i vaji del Carega ogni domenica d’inverno. Rivedi altri amici, esplorare grotte, superare pareti, aprire ferrate, nel corso degli anni, mentre tu sonnecchiavi nella cosa pubblica. Hai la montagna per antonomasia di fronte, e oggi ti senti paralizzato nel non poter andar oltre.
Eppure mica vuoi fermarti qui. Eppure sai che con i vaji del Carega prima o poi hai un appuntamento. Eppure non riesci a fare a meno di dirti, ancora, che magari il Bianco se non il Cervino, un giorno, un domani forse.
Poche ore e siamo di ritorno al villaggio svizzero. Pochi giorni e torniamo a casa. Poche settimane e sotto casa, gironzola curioso un bambino. Ha circa l’età del piccolo mio zio Renzo, è appena sceso dalla macchina di famiglia. Il papà lo ferma, gli sistema il piccolo imbrago per la ferrata, gli dedica un buffetto. Io esco sul balcone, li seguo con lo sguardo mentre s’incamminano. Mi scappa un sorriso tenero, un po’ per lui, un po’ per me. La scena riprende e riassume il mio dialogo con me stesso.
Vai piccolo, non fermarti! Che la montagna, il coraggio e la paura camminino nella vita di pari passo insieme a te..