La morte e la fanciulla: il crudele dualismo tra vittima e carnefice

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REGIA: Roman Polanski ● CAST: Sigourney Weaver, Ben Kingsley, Stuart Wilson, Krystia Mova, Jonathan Vega, Rodolphe Vega, Gilberto Cortés, Jorge Cruz, Carlos Moreno, Eduardo Valenzuela, Sergio Ortega Alvarado, Karen Strassman ● GENERE: thriller, drammatico ● DURATA: 103 minuti ● DATA DI USCITA: 6 Aprile 1995 (Italia)

“EGLI SOSTIENE CHE LEGARE UNA PERSONA IMPEDENDOGLI DI PARLARE PER DIECI MINUTI È IMPERDONABILE. SA UNA COSA DOTTORE? CONCORDO … È IMPERDONABILE”

La morte e la fanciulla del 1994 per la regia di Roman Polanski.

Chi è il carnefice e chi è la vittima? Questa è la difficile domanda che molte volte, nel corso della nostra storia, ci siamo trovati ad affrontare. Dai lager nazisti alle foibe partigiane, la dicotomia che separa l’aguzzino dell’oppresso non è poi così grande come si potrebbe pensare. Basta l’occasione giusta ed i ruoli si invertono regalando la stessa, se non maggiore, dose di dolore ed orrore.

È questo che il regista Roman Polanski descrive in La morte e la fanciulla dove in una casa isolata sulla scogliera, in un non precisato paese del sud America, si trovano Paulina Lorca Escobar (Sigourney Weaver) e suo marito Gerardo (Stuart Wilson) che durante una serata vengono interrotti dalla presenza del Dr. Roberto Miranda (Ben Kingsley) che Paulina riconosce come uno dei suoi torturatori. Paulina era stata in passato arrestata e seviziata, essendo una voce politica che ostacolava l’ideologia del nuovo governo dittatoriale. Disperati e pericolosi saranno i tentativi di Paulina per far confessare al Dr. Miranda i suoi crimini.

Struggente e terribile. Sono questi gli aggettivi che considero appropriati per uno dei film forse poco conosciuto di un regista che oramai si conosce più per gli scandali mondani che non per il suo contributo alla settima arte.

Di fatto questa storia ha dalla sua parte una regia solidissima per un cinema da camera, dove l’azione si svolge principalmente in poche stanze, e di questo tipo di cinema Polanski non si può altro che definire un incredibile fautore, ricordando altre opere simili come Repulsione (1965) o anche recenti come Carnage (2011). Gli attori sono tre e sono tutti e tre fenomenali, tra cui una Sigourney Weaver incredibile e di una cattiveria spaventosa e un Ben Kingsley che dimostra una incredibile capacità mimica e riesce a sorprendere totalmente in ogni più piccolo risvolto del suo personaggio.

Quando il film tira le somme, ciò che rimane sono solo domande ed è qui che il “vero cinema”, come oramai amo definirlo, nasce e si sviluppa. Un cinema che non si conclude mai veramente, ma che lascia un retrogusto amaro ed anche fuori dalle sue immagini ci lascia degli spunti o dei quesiti, perché nella vita, per quanto mi riguarda, non sono tanto importanti le risposte che ti dai, ma le domande che ti fai.

E qui le domande sono tantissime. Tra le più importanti e vicine al nostro vivere sociale, come dobbiamo punire il male? Se un uomo uccide, deve essere ucciso? Il male che ricevo deve essere alleviato con una pena pari a colui che me lo ha procurato?  Ciò che realmente chiedo è giustizia o soddisfazione? In quest’ultimo anfratto sembra incessantemente essersi perduto il personaggio di Paulina.

Su questo tipo di tema, credo che l’argomento più convincente contro la pena capitale o comunque contro la cosiddetta “legge del taglione”, è che la società non dovrebbe permettere a nessuno di trasformarsi in un carnefice. L’utopica possibilità che non vi siano aguzzini in circolazione, crea potenzialmente una situazione in cui nessuno può ritenersi una vittima. Eppure sappiamo quanto questo ragionamento sia lontano dal nostro mondo. Basta vedere quello che sta succedendo nella politica internazionale, soprattutto per quanto riguarda la situazione in Medio Oriente.

Aleggia inoltre il tema maschilista del possesso della donna, come oggetto di compiacimento sia fisico che personale da parte del maschio. Da una donna l’uomo cerca approvazione, invece quello che riceve è il senso di colpa, quando all’opposto ognuno dovrebbe cercare la propria soddisfazione in se stesso, senza addossare la colpa al gentil sesso.

Detto questo La morte e la fanciulla ci accompagna in una storia drammatica, fatta di rabbia e di sofferenza repressa, di luridi sotterfugi e di violenza, attraverso il melodico e malinconico quartetto d’archi in re minore scritto da Schubert nel 1824, dove una fanciulla in preda allo sgomento fronteggia l’implacabile compostezza della morte e forse sono proprio loro le figure che più assomigliano a Paulina e al Dr. Miranda.