La nuova stretta del governo Conte sulle attività che restano aperte, spacca industriali e lavoratori
La nuova stretta del governo Conte sulla chiusura delle attività commerciali spacca l’Italia economia. Da un lato la Confindustria, dall’altro i sindacati.
Mentre entra in vigore il nuovo decreto che chiude in Italia tutte le attività “non essenziali”, per cercare di arginare la diffusione del coronavirus, i sindacati infatti, si dicono pronti a scioperare se troppe fabbriche e settori rimarranno aperti perché non inclusi nella lista. “Riteniamo inadeguato rispetto a questo obiettivo il contenuto del decreto e inaccettabile il metodo a cui si è giunti alla sua definizione”, dicono Cgil, Cisl e Uil in una nota congiunta.
In una intervista al Giornale Radio Rai, il leader della Cgil Maurizio Landini ribadisce: “Sono state aggiunte, grazie alle pressioni di Confindustria, tutta una serie di attività che non rientrano tra quelle che devono essere ritenute essenziali. Al centro deve esserci la salute e la sicurezza. Chiediamo un incontro al Mise che ha il potere di modificare il decreto e le categorie produttive che vi rientrano”.
Contro il decreto, ma per motivi diversi, anche il presidente di Confindustria Vincenzo Boccia: “Con questo decreto si pone una questione che dall’emergenza economica ci fa entrare nell’economia di guerra. Se il Pil è di 1.800 miliardi all’anno vuol dire che produciamo 150 miliardi al mese, se chiudiamo il 70% delle attività vuol dire che perdiamo 100 miliardi ogni 30 giorni”, ha detto a Circo Massimo su Radio Capital
“Dobbiamo porci due domande: come far arrivare i prodotti essenziali a supermercati e farmacie, e come fare per far riaprire le imprese e riassorbire i lavoratori, visto che la cassa integrazione aumenterà”, aggiunge Boccia, per il quale la preoccupazione non basta: ” serve l’azione per fare in modo che lavoratori e imprenditori superino questa fase di transizione. Abbiamo proposto al governo di allargare un fondo di garanzia che permetta di avere liquidità di breve alle imprese per superare questa fase di transizione”. “Usciremo tutti con un debito ma che potrà essere pagato a 30 anni, come un debito di guerra. Dobbiamo intervenire per fare in modo che, quando tutto sarà finito, le aziende riaprano e tutto, con gradualità, torni alla normalità”.
Poi sullo sciopero paventato dai sindacati Boccia ha detto: “Sciopero generale? Non capisco su cosa. Non ho capito cosa si dovrebbe fare più di quello che si è fatto. Cerchiamo di essere compatti sui fini. Ai sindacati chiedo di guardare alle cose con grande buon senso. E’ un momento delicato della vita del Paese e noi siamo con loro per condividere l’obiettivo del decreto: garantire imprese, lavoratori, imprenditori, filiere dei beni essenziali, e insieme costruire le condizioni perché queste aziende possano riaprire superata la fase di criticità e non chiudere definitivamente. E’ nell’interesse del Paese, non solo dei sindacati”,.
Per Boccia bisogna compensare il calo della domanda privata: “Ora bisogna lavorare su due strumenti necessari: garantire alle imprese la liquidità e costruire un’operazione di opere pubbliche in modo che la domanda pubblica possa compensare il calo di domanda privata. Oggi parliamo di numeri più rilevanti del decreto da 25 mld, bisogna prenderne consapevolezza. L’UE lo ha già fatto sospendendo il Patto di stabilità”.
Intanto sono diverse le aziende nel settore aerospazio dove sono scattati oggi gli scioperi contro il decreto del governo che, avrebbe esteso le attività indispensabili rispetto a quanto concordato con il sindacato. Secondo quanto riporta la Fiom, hanno incrociato le braccia al momento i lavoratori di Leonardo, Ge Avio, Fata Logistic System, Lgs, Vitrociset, MBDA, DEMA, CAM e DAR.
I lavoratori delle aziende metalmeccaniche della Lombardia sciopereranno invece mercoledì 25 marzo per 8 ore. Lo fa sapere il segretario generale della Fim-Cisl, Marco Bentivogli. La decisione, spiega, “è stata presa perché si consideri la Lombardia una regione dove sono necessarie misure più restrittive sulle attività da lasciare aperte”.
Tra i nodi ancora da risolvere, quello delle imprese che stanno avviando la riconversione per produrre mascherine e gli altri dispositivi di protezione che al momento scarseggiano sul mercato e che, al momento, non hanno quindi un codice Ateco. Tra queste in primis, FCA.