Boschi devastati, Zovi: “Dobbiamo imparare la lezione della biodiversità”
“Mai abbiamo assistito in 180 anni sull’Altopiano di Asiago ad un fenomeno atmosferico come quello della scorsa settimana, con un vento che soffiava a 160 chilometri all’ora: le piante non sono abituate. Raffiche come quelle della bora e infatti a Trieste non ci sono abeti”. Daniele Zovi, roanese, quarant’anni nel Corpo forestale dello Stato (è stato comandante per il Veneto e il Friuli Venezia Giulia), di alberi e boschi se ne intende, tanto da aver pubblicato quest’anno per la Utet il libro “Alberi sapienti, antiche foreste“. Anzi, non solo li conosce, ma li ama e nel libro con gentilezza e passione racconta i segreti dei boschi, di quelli che chiama “organismi complessi“.
“E’ stato un fenomeno davvero inedito. Ho voluto rendermi conto di persona di quanto successo – racconta – e dobbiamo ricordarci che non è stato circoscritto solo all’Altropiano di Asiago ma ha riguardato anche il Friuli, il Cadore e il Trentino. La stima, ancora prematura, parla qui nel vicentino di mezzo milione di alberi divelti. Un danno immenso, dovuto anche al fatto che in alcune valli le raffiche, strette fra le pareti delle montagne, hanno aumentato la loro velocità”.
Come accaduto in Val d’Assa. Ma la colpa di quanto accaduto quindi è del vento?
“No. La forza del vento si è sommata ad altri fattori, creando un effetto domino: le piante si sono appoggiate fra di loro, cadendo le une sulle altre. Stiamo parlando di boschi che per due terzi sono stati piantati sulle rovine della prima guerra mondiale. Sono boschi artificiali, messi a dimora fra gli anni ’20 e ’30 del secolo scorso utilizzando una sola specie, ossia l’abete rosso. Sono stati ben 10 milioni gli alberi piantati in quegli anni sull’Altopiano: è stato il più grande sforzo di ricostruzione di boschi in Europa. Sull’Altopiano abbiamo quindi milioni di alberi della stessa età, delle stessa specie e della altezza. Inoltre l’abete rosso per sua natura ha radici superficiali. La somma fra evento metereologico inedito e tipo ed età delle piante è quello che abbiamo sotto gli occhi. Nei boschi naturali, composti da specie diverse e di età diverse, c’è stata una maggiore resistenza. I boschi che non furono bombardati cento anni fa sono infatti più stabili e hanno retto meglio”.
C’è una lezione da imparare da quanto successo?
“Sicuramente, anzi più di una. La prima è che stiamo andando verso pesanti cambiamenti climatici causati dall’uomo e i politici devono decidersi ad approvare norme per emettere meno anidride carbonica. Inoltre gli enti chiamati a ricostruire i boschi dovranno velocemente liberarli delle piante cadute, per evitare fenomeni di parassitosi e che il legname a terra deperisca. Va recuperato in fretta e a mio parere va lavorato sull’Altopiano. Per quel che riguarda il rimboschimento, è questa è la seconda lezione da imparare dal passato, vanno pensate strutture boschive più vicine al modello naturale. Va aumentata, insomma, la biodiversità. Nel secolo scorso invece si piantavano solo abeti rossi, e non sto parlando solo dell’Italia ma anche di altri paesi come la Repubblica Ceca, l’Ungheria e l’Austria”.
Quanto ci vorrà per rimettere in sesto i boschi?
“La foresta dell’Altopiano c’è ed è solida, i danni hanno toccato solo il 10% della superficie boschiva: per ripristinare le aree devastate servirà un lavoro di due-tre anni”.
Pochi in questi giorni hanno parlato della fauna. Cosa ne è stato degli animali che vivevano nei boschi devastati?
“Sicuramente nelle parti colpite una parte sarà riuscita a scappare, ma qualche animale sarà rimasto sotto i tronchi caduti. Quella di Asiago e degli altri Comuni è una foresta robusta e ricca di alberi, che ospita oggi almeno 500 cervi, più di mille camosci e più di 500 caprioli. La fauna è in grado di reagire a uno simile cataclisma”.
Se dovesse esprimere un augurio, quale sarebbe?
“Che da una crisi come quella attuale si riescano a cogliere due opportunità. La prima è quella di far lavorare il legname sul posto, dalle segherie dell’Altopiano, dando così opportunità di lavoro. La seconda è che si vada verso la costituzione di strutture forestali più ricche di biodiversità, prevedendo anche radure e prati dove gli erbivori possano pascolare. Ne guadagnerebbe anche l’estetica del paesaggio e la ricreatività delle nostre montagne”.