Arte e dintorni – La Passione di Cristo in due dipinti di Bartolomeo Montagna
Vicenza, inizi del Cinquecento. Scrive Giorgio Vasari nel suo trattato: “Ha dunque avuto Vicenza in diversi tempi ancora essa scultori, pittori e architetti… e massimamente di quei che fiorirono al tempo del Mantegna e che da lui impararono a disegnare”, vi era Bartolomeo Cincani, detto il Montagna (1450 c. -1523), che si era trasferito in giovinezza dall’entroterra bresciano alla nostra città, e dopo una formazione di largo respiro, lasciava in loco numerose opere di valore, come le pale d’altare nelle chiese di San Bartolomeo e di San Michele.
Tra la fine del Quattrocento e l’inizio del Cinquecento Vicenza viveva degli echi del nuovo stile che giungevano dalla corti rinascimentali del centro Italia e dalla fiorente Repubblica Serenissima. In particolare, dalla laguna giungeva la nuova sensibilità verso il paesaggio e il colore tonale, una rivoluzione ad opera dei grandi protagonisti del momento: Giovanni Bellini, Giorgione e il giovane Tiziano.
Venerdì Santo, verso mezzogiorno. La via dolorosa è il sentiero in salita verso il Golgota che Gesù, portando la croce, percorre tra ali di folla. Nonostante le scarne descrizioni dei Vangeli, la salita al Calvario è uno dei soggetti che più hanno stimolato la fantasia degli artisti e la fascinazione dei fedeli, un soggetto spesso dipinto con il dinamismo di una sacra rappresentazione che ha attinto a piene mani dalle tradizioni medievali. Una versione più intima e di piccolo formato di questo tema, il Cristo Portacroce, ha avuto una straordinaria fortuna proprio a cavallo tra i due secoli, e trova nei celebri dipinti di Giovanni Bellini, Giovan Battista Cima da Conegliano e Giorgione un riferimento cardine per i pittori del tempo.
Il Cristo portacroce, dipinto da Bartolomeo Montagna intorno al 1505, è conservato nella Pinacoteca di Palazzo Chiericati. Le misure contenute dell’opera individuano una destinazione privata, che ci porta a immaginarla nell’intimità di una piccola cappella gentilizia o in un angolo di una camera da letto padronale, collocata sopra ad un inginocchiatoio. La tavola sarebbe stata all’altezza degli occhi di un fedele in preghiera, e l’avrebbe indotto alla meditazione sul tema della solitudine di Cristo, al colloquio con il Dio fatto Uomo grazie al piano ravvicinato dell’inquadratura. Il dolore di Cristo è declinato con compostezza negli occhi arrossati e segnati, nella solitaria lacrima che riga la gota, nella fronte imperlata di sangue senza eccessi. La bocca socchiusa esala un invito all’indulgenza.
La tavola insiste sul sentimento e sull’espressione mite di Gesù che incarna l’Agnus Dei, la vittima sacrificale. L’opera si pone a cavallo tra due maniere: quella quattrocentesca di Mantegna ravvisabile nel disegno insistito delle pieghe un po’ taglienti della manica in primo piano, e quella nuova di Giorgione percepibile nella morbidezza della figura e nei bei passaggi del colore, che dai toni focati ai marroni giunge al caramello dorato.
Venerdì Santo, pomeriggio inoltrato. Dopo la Crocifissione e la Morte, con la Deposizione dalla croce il corpo esangue di Cristo viene adagiato su un lenzuolo e portato via da Giuseppe d’Arimatea per essere tumulato. Bartolomeo Montagna firma il 5 aprile 1500 il suo Compianto in formato quadrotto, opera che ancor oggi si può ammirare sull’altare della Pietà, a destra dell’altare maggiore, nel Santuario di Monte Berico. La Santa Pasqua si sarebbe celebrata poco dopo, il 19 aprile 1500, e se l’opera fosse stata collocata in tempo, il quadro avrebbe potuto essere al centro dell’attenzione dei fedeli convenuti al Santuario per il triduo sacro.
In una sola scena Montagna coniuga l’iconografia del Compianto, della Pietà e della Deposizione al sepolcro, un’opera in cui, come scriveva l’abate Antonio Magrini nel 1863 nel suo “Elogio”: “di altro non si tratta che di lagrime e di dolore”. Le scarne note sul tema che troviamo nei Vangeli canonici vengono arricchite dalla tradizione devozionale popolare, che dona a questi soggetti potente forza emotiva. L’accento sull’esperienza umana della morte, tutta elaborata sul piano del sentimento, ne decreta la fortuna nei secoli.
Al centro dell’opera, la Pietà si colloca su uno sperone ricavato dalla roccia, aspro e inospitale. La vita s’insinua nella freddezza della pietra, con tre presenze che aprono alla speranza della resurrezione: una mela, un rametto di malva e una farfalla. Al centro trova posto il cartiglio con la data e la firma. Per donare un ultimo saluto terreno al figlio, la Madonna tiene sulle ginocchia il freddo corpo esanime di Cristo, prima di consegnarlo a Giuseppe d’Arimatea per la sepoltura. Il dolore della madre si condensa in una lacrima straziante e nel grido interrotto che le inaridisce la bocca.
Con un abbraccio lieve la Madonna cinge il corpo di Cristo, e rimane assorta nell’elaborare la perdita attraverso la visione dei dettagli della salma: gli occhi socchiusi dal sonno esiziale, la bocca immobile priva di respiro, le braccia conserte che espongono le piaghe dei chiodi. L’iconografia della Pietà dolente, chiamata Vesperbild, nel secolo precedente, si era sviluppata in area tedesca e si era diffusa in tutta Europa attraverso opere scultoree in legno di piccole dimensioni. Presto aveva conquistato largo consenso tra i fedeli. Va anche considerato che il tema della Pietà trova un corrispettivo musicale nello Stabat Mater e un parallelo letterario nelle laudi di Jacopone da Todi.
I personaggi del Compianto si dispongono intorno al gruppo centrale. Giuseppe d’Arimatea di giallo vestito e San Giovanni Evangelista di rosso, s’incurvano verso la Madonna, e fieramente provati dal dolore stringono le mani in preghiera in modo ossessivo. Ai piedi di Cristo, Maria Maddalena straziata dal dolore inorridisce davanti alle ferite del Salvatore. L’antro scuro e aperto del Sepolcro, a destra, attende il compimento delle Sacre Scritture.
Il paesaggio sullo sfondo non ritrae il Golgota, ma introduce un panorama suggestivamente familiare. Un bel borgo fortificato sfoggia il cammino di ronda, i merli guelfi e altre architetture medioevali a mattone rosso, che contrastano con la bassa siepe posta a dividere i campi dalla scena sacra. L’opera risente nel pathos e nella gestualità delle influenze drammatiche d’Oltralpe, giunte in Veneto attraverso le stampe tedesche, e presenta alcune tipiche asprezze dal sapore mantegnesco. Le nuove esperienze lagunari dell’artista, che spesso si recava a Venezia, si registrano nella pacatezza del paesaggio e nella serena luce che pervade la scena. Per citare ancora Magrini nel suo “Elogio”, in quest’opera Bartolomeo Montagna ha toccato il segno più alto.
Per superare l’umana sofferenza di fronte alla Passione e Morte di Cristo, il fedele, che dal Cinquecento osserva queste opere, attende con speranza l’avvento della Santa Pasqua.