CineMachine | Alien
REGIA: Ridley Scott
CAST: Sigourney Weaver, Tom Skerritt, John Hurt, Harry Dean Stanton, Yaphet Kotto
GENERE: Fantascienza, Horror
DURATA: 117 minuti
DATA DI USCITA: 25 ottobre 1979
Data l’imminente uscita nelle sale di “Alien: Covenant”, mi sembrava opportuno parlare, soprattutto a coloro che ancora non conoscono il filone cinematografico a cui questa pellicola si collega, della genesi di questa saga, partendo proprio dal capolavoro che ne gettò le fondamenta quasi quarant’anni fa: “Alien” di Ridley Scott.
L’equipaggio dell’astronave Nostromo sta tornando sulla Terra, dopo aver prelevato un carico di minerali dal pianeta Thedus. Il lungo viaggio costringono tutti a rimanere in uno stato di ipersonno, quando un segnale di soccorso proveniente da un pianeta sconosciuto li risveglia improvvisamente. La missione è quella di scoprire la provenienza di tale segnale e prestare il dovuto soccorso, ma la situazione sembra degenerare quando l’equipaggio atterra sul pianeta, venendo a conoscenza di una civiltà aliena sconosciuta. Inavvertitamente, un piccolo ed orrido essere aggredisce un membro dell’equipaggio, avvinghiandosi strettamente alla sua faccia. L’uomo viene ricondotto sulla navicella e muore pochi attimi dopo, liberando alieno incubato nel suo corpo. Da qui si susseguiranno un sacco di scene intrise di suspense e orrore. L’alieno è a bordo della nave spaziale e i nostri protagonisti sono, letteralmente, in balia della creature. Chi riuscirà a sopravvivere?
Dopo aver lavorato con il grande maestro John Carpenter (Dark Star), Brian O’Bannon, sceneggiatore, attore e regista statunitense, ritornò al cinema di fantascienza, dandogli però un inclinazione più orrorifica. Diceva, in quegli anni, O’Bannon: «Sapevo di voler fare un film horror su una nave spaziale con pochi astronauti a bordo, una sorta di Dark Star in chiave horror invece che comica».
Di fatto, dopo la metà degli anni settanta, la “science fiction” aveva trovato la sua apoteosi in film come “Star Wars” o “Incontri ravvicinati del terzo tipo” e pensare di trovare una storia ricollegata a questo genere cinematografico dalle sfaccettature meno “mainstrem” era una bella sfida.
Quelli erano gli anni in cui il cinema horror e, soprattutto lo slasher-movie, stava cominciando a diventare un fenomeno culturale. Furono prodotti capolavori del genere come “Non aprite quella porta” di Tobe Hooper (1974) e “Halloween – La notte delle streghe” di John Carpenter (1978) ed “Alien” deve molto a quest’ultimo, proprio per le sue atmosfere cupe e per la sequenzialità in cui le uccisioni vengono consumate, in modo freddo e, quasi, ordinato, in un certo senso.
Ciò che “Alien” possiede e che ne fa un film unico nel suo genere è la graduale curva ascendente della tensione, gestita in un modo magistrale dallo zio Scott. Il film si apre in un modo molto tranquillo e, sembra incredibile, ma per ben quaranta minuti di pellicola non vediamo apparire il mostro sullo schermo. Questo ricorda un po’ “Lo squalo” di Steven Spielberg, che è stato, possiamo dire, un maestro a creare la giusta tensione inserendo il mostro senza però metterlo subito in primo piano.
La tensione comincia a salire e cominciamo ad accorgerci che gli spazi di questa immensa astronave iniziano a restringersi. L’alieno è in agguato e non si sa quando o chi colpirà. Il contrasto sta proprio nel fatto che l’ambientazione, oltre alla nave spaziale, è proprio lo spazio profondo che, per antonomasia, racchiude in sé il significato di un’apertura sconfinata. Il senso di claustrofobia che si respira da metà film in poi sono angoscianti e vertiginosi, sia per i nostri protagonisti, sia per lo spettatore. Proprio sulle prime locandine pubblicitarie c’era scritto: “Nello spazio nessuno ti può sentire urlare”. Brividi.
Inoltre tutto le tecniche sonore, curate dal direttore d’orchestra e compositore Jerry Goldsmith, creano un background che sostengono e arricchiscono l’immagine in un modo tanto spettacolare quanto cupissimo e crudelissimo. Parliamo di una sonorità molto minimale, quasi impercettibile, come fece poi anche Stanley Kubrick, nel 1980, in un film come “The Shining”.
I nostri protagonisti, tra cui spiccherà (non subito) il tenente Ellen Ripley, interpretata da una bellissima e portentosa Sigourney Weaver, cominciano a morire, uno alla volta. Il bello del film è che subito siamo portati ad affezionarci non ad un unico personaggio, ma un po’ a tutti, in quanto un po’ tutti si raccontano nel corso della storia, attraverso dei dialoghi che profumano di quotidiano e con cui ci possiamo tutti affiancare, nel bene o nel male. Quindi c’è un passaggio molto netto da una storia corale ad una storia dove c’è una protagonista che riesce a sopravvivere alla catastrofe e riesce a fuggire alla morte.
“Alien” di Ridley Scott è un film che riflette sulle condizioni di chiusura a cui la società tecnologica ci ha portato e ci sta tuttora portando. Gli spazi che la tecnologia ci ha portato sono veramente sconfinati. Oggi tutti possiamo permetterci di possedere un cellulare e comunicare con l’altra parte del mondo, ciò nonostante sembra che le nostre coscienze, le nostre personalità invece di arricchirsi ed aprirsi si impoveriscano e si racchiudano sempre più dentro se stesse. Forse anche noi abbiamo paura dei tanti mostri che si nascondono negli angoli bui della nostra vita e stiamo cercando anche noi, come Ellen, di saltare sull’ultima navicella di salvataggio e scappare.