CineMachine | La classe operaia va in paradiso
REGIA: Elio Petri ● CAST: Gian Maria Volonté, Mariangela Melato, Gino Pernice, Salvo Randone, Luigi Diberti ● GENERE: drammatico ● DURATA: 125 minuti ● DATA DI USCITA: 17 settembre 1971 (Italia)
La classe operaia va in paradiso del 1971 per la regia di Elio Petri.
Storia: Ludovico Massa, detto Lulù, è un operaio presso la fabbrica B.A.N. dove un giorno gli capita un incidente e perde un dito. Prima di quel tragico momento Lulù era uno convinto stakanovista, sostenitore del lavoro a cottimo e per questo amato dai padroni. Ce n’è abbastanza per rendere Lulù una personalità malvista dai suoi colleghi di lavoro. Dopo l’incidente Massa cambia drasticamente e comincia ad aderire alle istanze radicali degli studenti e di alcuni operai della fabbrica, nell’intento di denunciare i soprusi della fabbrica e dei padroni verso gli operai stessi, costretti a ritmi di lavoro sempre più frenetici e ridotti ad uno stile di vita completamente alienante.
Mi risulta difficile parlare di questo film. In primo luogo perché sono fin troppo giovane per avere una panoramica completa del clima che si respirava sia nella politica sia nella fabbrica italiana dei primi anni settanta. In secondo luogo perché io stesso sono un operaio e guardando questo film ho ovviamente riconosciuto quella tipologia di meccanismo produttivo frenetico e alienante che incatenano l’operaio alla macchina. Ciò potrebbe portarmi a favoreggiare un certo tipo di visione rispetto ad un’altra, ma non ci terrei a fare questo tipo di errore, anche perché il regista Elio Petri disse, quando La classe operaia va in paradiso aveva ormai fatto il suo successo, che con questo film furono tutti polemici, sindacalisti, studenti di sinistra, intellettuali, dirigenti comunisti, maoisti. Ciascuno avrebbe voluto un’opera che sostenesse le proprie ragioni: invece questo era un film sulla classe operaia.
Di fatto, il film di Petri non è un film politicamente schierato e di questo in pochi se ne sono accorti, ma è un film puramente neorealista nelle sue intenzioni, ovvero un film che mostra i fatti con la crudezza di una realtà che era quella dell’Italia di quegli anni e che, per certi aspetti, è anche quella di oggi. I meccanismi del lavoro che fanno dell’uomo una macchina al pari di quella che egli stesso mette in funzione, sono tali in vista di una produttività che tiene conto fino ad un certo punto della persona che vi è alla base. Non è un caso che l’amico ed ex-collega di lavoro di Lulù, un certo Militina, sia finito con il diventare pazzo subendo per anni questi ritmi di lavoro.
Inoltre Petri, parlando di questo immenso meccanismo politico-sociale-industriale, non punta il dito solo sui padroni, ma lo punta anche sui sindacalisti e sugli studenti universitari di sinistra, i quali si interessano della classe operaia, senza però prestare attenzione all’operaio, come lo stesso Massa, il quale viene, per così dire, sedotto dalla carica di protesta dei questi individui, per poi essere abbandonato senza più un lavoro.
Il problema della lettura di questa pellicola non è tanto nel domandarsi di chi sia la colpa, in quanto la colpa è semplicemente nostra, di tutti coloro che partecipano all’attività lavorativa con sdegno per il proprio mestiere e per tutti quelli che vi partecipano, dal politico al impresario, dal sindacalista all’operaio. L’intento di ricercare in un qualche ramo sociale il responsabile, spogliandosi in prima persona della colpa, è sintomo di quella disumanizzazione che da decenni ci assale con la scusa di renderci sempre più competitivi. Ordunque è questo meccanismo intricato che infetta le nostre vite e ci fa entrare in quel meccanismo del homo homini lupus, quell’istinto di prevaricazione che non tiene conto del più debole.
Il guardare all’operaio o al impresario con un occhio umano è un qualcosa che non ci viene immediato, perché riconosciamo in queste due figure un’asimmetria spaventosa. Il dirigente comanda l’operaio, quando il rapporto che si dovrebbe instaurare, oltre ad esser di reciproco rispetto, dovrebbe essere di una reciproca collaborazione e ciò non vuol dire sottoporre l’operaio a dei ritmi di lavoro che mina questo rapporto, in quanto se l’operaio lavora male è la struttura portante dell’impresa che crolla. Lo stesso discorso vale per l’impresario che non può essere sottoposto a minacce o sabotaggi continui, in quanto anch’egli è parte di tale meccanismo. Alla fine è quello che diceva Fritz Lang nel 1922 in Metropolis: « Sinnspruch: Mittler zwischen Hirn und Hände muss das Herz sein! », ovvero « Aforisma: Il mediatore fra il cervello e le mani dev’essere il cuore! »
Ad oggi la robotizzazione del lavoro ha risolto fino ad un certo punto questo problema, in realtà sostituendo all’uomo la macchina, ma ciò non toglie che la figura dell’operaio rimanga e si spera che questa non sia ancora considerata come una puleggia, un bullone, una vite, una cinta di trasmissione, una pompa, perché una volta che la pompa è rotta non puoi fare altro che sostituirla.
Il discorso, alla fine, non è imputare qualcuno, ma è rendere consapevoli i più di questa situazione. Non è questione di scontro, ma questione di coesione di intenti all’interno di un meccanismo economico che dà problemi sia all’operaio che all’imprenditore, al di là dei soliti approfittatori, sfruttatori, evasori e delinquenti vari che stanno in tutti gli strati e substrati della nostra società.
Alla fine, l’opera di Petri è un film che parla dell’uomo all’interno di un meccanismo malato che lo infetta, lo percuote, lo aliena dal suo lavoro e dalla sua vita. Di fatto Lulù non è definibile come un eroe positivo o negativo, ma è definibile come un uomo con una vita alquanto squallida, per certi aspetti, ma che cerca di riscattarsi socialmente ed umanamente. Un po’ quello che penso tutti cerchino di fare. Non possiamo far altro che lasciare gli operai al loro lavoro, mentre sognano distesi in una cortina di nebbia.