CineMachine – Una Tomba Per Le Lucciole
Regista: Isao Takahata
Cast: Tsutomu Tatsumi, Ayano Shiraishi, Yoshiko Shinohara, Akemi Yamaguchi
Genere: Animazione, Drammatico
Durata: 85 minuti
Uscita: 16 aprile 1988 (in Giappone)
Forse uno dei film d’animazione più tragici della storia del cinema. La storia di Seita e Setsuko, due piccoli fratelli che si troveranno ad affrontare l’orrore della Seconda Guerra Mondiale e lo faranno in un modo che nessuno avrebbe potuto immaginare, se non Isato Takahata e lo Studio Ghibli.
Per inciso: se non avete mai visto un film d’animazione giapponese questo è un ottimo modo per iniziare e per capirne la profondità. Passiamo alla storia di “Una tomba per le lucciole”.
Siamo in Giappone e Seita, un ragazzo tra i 12 e i 14 anni, e la sorella più piccola Setsuko hanno il padre lontano, impegnato nello scontro armato con gli americani, i quali continuano incessantemente a gettare bombe sulle piccole città del Giappone. Tra queste proprio quella dei nostri due piccoli protagonisti. Sarà proprio in uno di questi bombardamenti che la madre dei due ragazzi troverà la morte, lasciandoli a vivere, in un primo momento con una zia paterna che però a sua volta li abbandonerà per la poca disponibilità di cibo. Seita e Setsuko si troveranno da soli a fronteggiare la miseria e la devastazione che solo chi ha vissuto realmente la guerra conosce. Una guerra che non gli appartiene e che non conoscono.
Il loro sguardo è quello dell’innocenza tipica di un fanciullo e per tutto il film possiamo capire quanto questa cosa sia preziosa ai due protagonisti e quanto questo riesca a creare una barriera tra loro e la terribile realtà che li circonda. In realtà è Seita a voler issare tale barriera, nell’intento d’impedire che la sorella più piccola, alla quale è molto affezionato, venga privata della sua spensieratezza e della sua vivacità. Questo ci rimanda un po’ a “La vita è bella” del premio Oscar Roberto Benigni, ma a differenza di quest’ultimo il film non lascia spazio a situazioni o preamboli di riso, perchè ci trascina in uno spazio dove luce ed ombra convivono e dove non c’è un vero cattivo da imputare come responsabile della “prigionia” dei personaggi. C’è solamente un vuoto incolmabile, frutto dell’insensatezza della guerra. Seita è un ragazzino, non ha coscienza reale di che cosa voglia dire un conflitto e sembra dire, con la sua scelta, di non volerlo vedere, di non volerci avere nulla a che fare.
Forse spererete per tutta la durata del film che le cose possano andare meglio, ma Takahata ha firmato un’opera (per molti un capolavoro) intenta a ferire e spogliare lo spettatore di tutte le sue difese e soprattutto con l’intento di responsabilizzarlo e sensibilizzarlo. Una lezione morale sul quale meditare a lungo ed un monito tanto straziante quanto prezioso.
Le lacrime scenderanno, questo sarà inevitabile. La guerra raccontata da Takahata è un evento di una crudeltà così potente che non la si vorrebbe mai vivere. Per questo la guardiamo attraverso degli occhi inconsapevoli per buona parte della storia, ma poi ne vediamo le conseguenze tangibili, già preannunciateci all’inizio. Ne vediamo e respiriamo la spietatezza e la ferocia, senza che ci sia un momento di leggerezza o respiro che non sia accompagnato da qual poco di amarezza e di paura per la sorte di Seita e Setsuko. Forse l’unico attimo in cui ci liberiamo da tutto questo è quando vediamo le lucciole alzarsi in volo ed illuminare il prato dove siedono i nostri due protagonisti.
Le lucciole sono un baluardo di quella speranza. La speranza che avvenimenti come la guerra svaniscano dalla nostra realtà. Ad un bambino basta mettere le mani davanti agli occhi per far sì che tutto intorno a lui scompaia. Noi invece dovremmo e potremmo guardare il mondo in modo diverso, cercando di far cessare i conflitti, anche nel nostro quotidiano, invece di alimentarli con quella paura e quell’indifferenza che graveranno sulla vita dei vari Seita e Setsuko.
Non vi scorderete di loro. Rimarranno stampati nella vostra mente e nel vostro cuore, perché forse comprenderete che la loro unica colpa non è l’essere stati stupidi o impreparati, ma aver avuto il coraggio di essere quello che sono, cioè dei bambini.