Il giornalismo oggi, tra circo mediatico e reportage d’inchiesta
3 maggio – Anche l’Italia si mobilita in occasione della Giornata mondiale per la libertà di stampa
C’è la storia sussurrata nei palazzi del potere e nelle aule giudiziarie, c’è la memoria delle strade e dei campi di battaglia e poi c’è quella verità raccontata sui quotidiani, nelle radio, negli studi televisivi e oggi anche sul web, quella verità che è tanto più vicina alla realtà quanto più forte è la professionalità di coloro che la raccontano. E proprio ai giornalisti che hanno rischiato o perso la vita pur di rimanere fedeli alla loro professione, le Nazioni Unite dedicano il 3 maggio una giornata all’insegna della consapevolezza, dell’impegno e del ricordo. Ma che cos’è davvero la libertà di stampa, tutelata come diritto fondamentale dal primo emendamento della costituzione americana e dall’art. 21 di quella italiana?
Il visionario scrittore George Orwell, autore di 1984 e La fattoria degli animali, risponderebbe che si tratta “del diritto di dire alla gente ciò che la gente non vuole sentirsi dire”. Il filosofo Edmund Burke aggiungerebbe che si tratta di un “quarto stato”, molto più forte rispetto ai tre poteri istituzionali (legislativo, esecutivo e giudiziario) teorizzati da Montesquieu per garantire il buon funzionamento di uno Stato di diritto.
In un mondo però, come quello odierno, in cui i social fungono da cassa di risonanza delle verità di ciascun utente, dove imperano le fake news, ovvero le notizie false o non verificate che però acquistano autorevolezza grazie alla condivisione e dove per improvvisarsi reporter basta accendere la telecamera dello smartphone, ha ancora senso considerare i giornalisti come i moderni guardiani della democrazia e del rispetto di quei diritti umani per il cui riconoscimento tanto abbiamo faticosamente lottato? Certo, in un’epoca in cui le dichiarazioni d’intenti si sciolgono nell’individualismo virtuale senza raggiungere la piazza, la democrazia si erode via twitter, gli attentatori si sincronizzano su WhatsApp e i giornalisti, per poter vivere dignitosamente del loro lavoro, sono costretti a infinite ospitate nei talk del mattino, riesce difficile immaginare quegli uomini e quelle donne con la macchina fotografica impolverata e un grosso adesivo con la scritta “press” sulla schiena, sempre in prima linea per intervistare un politico, scoprire un accaparramento indebito di risorse, smascherare un complotto ai danni dei contribuenti oppure semplicemente, esaltare la bellezza di una nuova opera musicale o di una rivoluzionaria scoperta scientifica.
Eppure le grandi inchieste si fanno ancora, anche quando costano la vita: secondo le stime del network Reporters sans frontières (Giornalisti senza frontiere) nel solo 2016 sono stati uccisi nel mondo, a causa del proprio lavoro, 93 giornalisti, a cui si sono aggiunti gli 11 assassinati dall’inizio del 2017.
Proprio ora, mentre scriviamo, 49 tra cameraman e reporter sono imprigionati in Turchia: nessuno di loro, a differenza del nostro Gabriele Del Grande, arrestato all’inizio di aprile al confine con la Siria e fortunatamente rilasciato qualche giorno fa dopo una grande mobilitazione popolare, può vantare quel piccolo grande salvacondotto rosso e dorato che risponde al nome di “passaporto dell’UE”. Passaporto di prima qualità che però non è bastato a salvare i 28 giornalisti italiani che dal 1960 ad oggi hanno perso la vita a causa delle inchieste che stavano seguendo, uccisi dalla mafia e dal terrorismo come Peppino Impastato e Mauro De Mauro, oppure lontano da casa, mentre cercavano di raccontare agli italiani una verità che, anche se non era la loro, li toccava da vicino, come Ilaria Alpi e Miran Hrovatin in Somalia, Maria Grazia Cutoli in Iraq e Andrea Rocchelli in Ucraina. E poi ci sono i 412 giornalisti, in maggioranza residenti nel Lazio, che nel solo 2016 hanno dichiarato di aver subito minacce o pressioni per abbandonare il lavoro che stavano seguendo: sei di loro vivono ad oggi ancora sotto scorta. Questo triste primato, unito a una serie di considerazioni sul quadro normativo di riferimento e sul pluralismo nella proprietà dei canali di informazione, colloca l’Italia al cinquantaduesimo posto nell’indice della libertà di stampa elaborato da Reporters sans frontières e il fatto di aver recuperato una decina di posizioni rispetto all’anno scorso non è motivo, visto che nella classifica siamo stati superati da Paesi come il Ghana, il Cile, Capo Verde, il Sudafrica, l’Argentina, la Romania e la Papua Nuova Guinea. A prescindere dall’attendibilità dell’indice, che ancora una volta proclama paradiso dei giornalisti la triade scandinava composta da Norvegia, Svezia e Finlandia e stabilisce nella Corea del Nord la loro nemesi, quello che urge fare, in questa giornata internazionale e sempre, è interrogarsi e verificare la fondatezza delle notizie che ci vengono proposte, schierandoci in difesa dei giornalisti d’inchiesta che nel mondo vengono minacciati a causa del proprio lavoro, perché, come sostengono i Reporters sans frontières “senza di loro ogni guerra e ogni ingiustizia rischierebbero di trasformarsi in un giocoso spettacolo mediatico e nulla più”.