Incontri ‒ La solitudine degli anziani durante il lockdown. E non solo
Durante il lockdown ritrovo dopo qualche mese un’anziana che non vedo da tempo.
Porto fuori l’umido nel bidone stradale ed è anche lei lì per il medesimo motivo.
«Signora, buonasera, come va?»
«Buonasera, sono contenta…»
«Pensavo mi dicesse altro, contenta? Come mai?»
Spalanca gli occhi e rimane in silenzio. Ha la mascherina, non posso notare una qualche espressione della bocca. Li spalanca ancora, per tre volte, velocemente. Allora le chiedo di aiutarmi a capire. Mi spiega che è contenta di poter guardare di più le persone negli occhi rispetto a prima e viceversa. Mi dice anche che ha una dentiera molto vecchia perché negli ultimi anni non aveva soldi per acquistarne una nuova e perciò ogni volta che parla con gli altri senza mascherina si sente a disagio e si mette a volte la mano davanti alla bocca. Alza le braccia al cielo e mi dice che ora invece può parlare liberamente e spalanca gli occhi alcune volte. Ride. Rido pure io.
Vi confesso che questa confidenza con me la signora non l’ha mai avuta, ma sto al gioco, mi sento dentro un mondo che non mi appartiene e mi sembra irrispettoso tagliare il discorso per tornare alle mie attività, anche perché percepisco che desidera parlare. Rimaniamo perciò a una distanza di prudenza e vengo a sapere che vive da sola, che il figlio è sposato a Vicenza e che sente i suoi due nipoti quasi ogni giorno a telefono. Aggiunge che le hanno comprato l’anno scorso un cellulare perché le avevano spiegato che c’è un modo facile per sentirsi (immagino che pensassero a WhatsApp o Telegram), ma che lei dopo poco tempo l’ha fatto scaricare tutto (mi ha detto proprio così: «L’ho fatto scaricare tutto», come se si sentisse fiera di averlo fatto morire con quella parola «tutto») e non l’ha più ricaricato. Lei preferisce il telefono fisso. Le chiedo se guarda la televisione. Assolutamente no, mi dice, ama la radio. La prima cosa che fa la mattina è accendere la radio e l’ultima è spegnere la radio. Qualche volta, ascoltando la musica, balla da sola per tenere le gambe in allenamento.
«Signora, ma lei non ha paura di quello che sta succedendo?» Scoppia in una risata sonora. Mi dice che ha vissuto la seconda guerra mondiale da bambina, raccontando in breve che la sua famiglia faceva la fame; aggiunge che da giovane ha avuto due aborti, nel 1951 e nel 1953; negli anni Sessanta suo marito aveva perso il lavoro e per alcuni mesi hanno mangiato una volta al giorno e non sempre; aveva una sorella che ha accudito per anni e che era disabile grave, morta nello stesso anno di suo marito, dopo di che lei è stata in depressione per un po’ di tempo. Ora, dice, si presenta il coronavirus, passeremo anche questo e conclude dicendo: «Lei giovanotto, non vedo la sua bocca, deve sorridere sempre, mi creda, le bombe sopra alla testa sono molto peggio di questa influenza».
Spalanca gli occhi tre volte alzando le braccia al cielo, io faccio lo stesso sia con gli occhi sia con le braccia e ci salutiamo.
La settimana scorsa mi metto in testa di capire come sta. Vado nella palazzina dove vive ma non so dove citofonare con precisione, non conosco il nome della signora. Poco lontano c’è un ragazzo di circa vent’anni appena arrivato con lo scooter e gli chiedo, tentando di descriverla, se la conosce. Mi spiega che qualche volta la incontra ma che non si parlano mai. Mi indica il suo nome nel citofono.
«Buongiorno signora, mi scuso se la disturbo, ci siamo incontrati qualche tempo fa vicino ai bidoni stradali, mi ha parlato dei suoi nipoti e un po’ della sua vita, si ricorda?»
«Sì… ricordo… ma come fa a sapere dove abito?»
«Non lo sapevo, un ragazzo che vive nella sua stessa palazzina mi ha indicato il suo nome»
«Va bene, mi dica…»
«Volevo soltanto sapere come stava… non l’ho più vista».
«Tutto bene, la ringrazio, che Dio ce la mandi buona» e ride.
«Ha ragione, allora buona giornata!»
«Buona giornata a lei e grazie».
Un’abitudine che dovremmo avere: citofonare qualche volta agli anziani che conosciamo per farli sentire meno soli.