Spettacolando – “La stanza di Agnese”, Paolo Borsellino raccontato con gli occhi della moglie
Il 19 luglio 1992 è un mondo fa, che nella frenesia del quotidiano tendiamo a dimenticare come fosse un passato remoto che non ci riguarda più.
Un mondo terminato con l’esplosione di una Fiat 126 che conteneva 100 chili di tritolo, arrivato proprio per lui. Dopo Giovanni Falcone, toccava a Paolo Borsellino e lui lo sapeva bene: forse per questa ragione quel giorno, dopo pranzo, ha detto alla moglie Agnese che sarebbe andato da solo a trovare sua madre. Meglio che stiate a casa voi.
E’ una straordinaria Sara Bevilacqua a tenere il monologo che il 21 maggio al Teatro Astra di Vicenza chiude la rassegna “Terrestri”: La stanza di Agnese è una sospensione dalla realtà in cui la vita si ferma per un’ora. Paolo Borsellino magistrato a 23 anni, timido e ironico, tenace e umile, che pensa solo al lavoro e non ha il tempo per corteggiare la meravigliosa Agnese. Forse perché era la figlia del presidente del Tribunale di Palermo e non era opportuno, per la discrezione siciliana di quei tempi. Una gita in barca e poi non la vede più. Una cena per caso e non la cerca più. Poi un giorno l’aspetta sulla strada e le chiede se gradisce un passaggio a casa. Una volta, due volte, tre volte, e lei gradisce sempre. Alla quarta le fa la proposta dopo un mese sono marito e moglie. Nessuna riparazione, come dicevano le malelingue, perché Manfredi, Lucia e Fiammetta arriveranno solo in un secondo momento.
Manfredi, che giocava a pallone coi poliziotti sull’Isola dell’Asinara, quando la famiglia Borsellino va in esilio per salvare il lavoro del Pool Antimafia e la loro vita stessa. L’Asinara, quel meraviglioso bunker a cielo aperto che lo stato italiano confonde per una vacanza di lusso, non mancando di inviare a Falcone e Borsellino una nota spese, per il gradito soggiorno.
Lucia, che su quella stessa Isola si ammala di quei mali che colpiscono dentro e non ci puoi far niente se hai un padre stupendo ma tu vivi col timore e la certezza di non poterti abituare alla sua presenza.
Fiammetta, che per giocare con lui gli faceva scudo con tutta sé stessa, giocando a fare la guardia del corpo.
Non è facile trattenere le lacrime che scendono schiacciate da quel misto di rabbia, rassegnazione e senso di impotenza che ci attanaglia lo stomaco ancora oggi. Sono troppi i ricordi che si accavallano: i due giudici ostacolati, ammirati nel mondo intero al punto d’essere considerati come modello per le nuove pratiche investigative, ma al di fuori del paese. Qui erano costretti a combattere prima di tutto contro chi tentava di ridurli a omuncoli e quaquaraquà, mezz’uomini assetati di potere, che amavano stare in televisione sotto le luci della ribalta.
Questo spettacolo spezza il cuore ma ci impone di fare ancora i conti con una pagina importante della nostra storia: non possiamo permetterci di dimenticare chi ha dormito con una mano sulla pistola e una sul quaderno rosso, per provare a dare a noi cittadini la forza e la dignità di vivere in un paese normale. Senza chiedersi se ne valesse la pena, senza chiedersi come, dove e quando qualcuno lo avrebbe ucciso, preoccupandosi solo che nessuno morisse al posto suo. E che Fiammetta, al ritorno dal suo viaggio in Asia portasse una macchina fotografica per Manfredi.
Paolo Tedeschi
PS: Il 23 maggio, anche quest’anno è stata la ricorrenza nazionale del Giorno della Legalità, volta a commemorare le vittime di tutte le mafie e, in particolare, delle stragi del 1992. Purtroppo abbiamo sempre più un disperato bisogno di ricordare.