Un vicentino sulle orme di Marco Polo – #10 E’ più facile che un cammello…

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Carovana di cammelli tra le dune di Dunhuang, Cina (foto Daniele Binaghi)

Lasciata Xi’an, il nostro viaggio prosegue, ché la Cina è ancora grande da esplorare, e dobbiamo ricorrere a vari voli e persino ad un treno “proiettile” (lo chiamano così, ma in realtà viaggia a 200 km all’ora, un po’ come le nostre frecce più veloci… tutta propaganda, insomma!) per coprire le distanze tra una località e l’altra.

Pure la muraglia è, come detto, grande, e quindi il primo appuntamento è Jaiyuguan, dove ci aspetta un’altra sezione dell’imponente opera di difesa dei confini occidentali. Piena di visitatori, ché ormai la settimana di festa è iniziata e milioni di cinesi sono in viaggio verso varie località del loro paese, è priva di seggiovie o altri sistemi di salita e quindi bisogna scalarsela fino in cima per godere di una vista sicuramente impressionante, con il deserto che arriva ai limiti della città dando l’impressione di essere solo una versione più moderna di un’ oasi; peccato che a rovinare la vista ci pensino le torri dei grandi impianti industriali, giusto sullo sfondo di ogni fotografia delle antiche fortificazioni, e le migliaia di lucchetti “dell’amore” che pendono da cavi appositamente posizionati dal proprietario di un baracchino che si trova giusto a lato di una delle torri di guardia… sarebbe interessante scoprire come ha fatto ad avere il permesso di costruire lì, ma la mia conoscenza della lingua locale dovrebbe essere decente invece di limitarsi a semplici parole come “ni-hao” (ciao) e “scè-scè” (grazie).

Ci piace molto di più, colpendoci con la sua imponenza, la fortezza che si erge fiera ai limiti della città, costruita nella seconda metà del quattordicesimo secolo per difendere il passo tra i picchi innevati di Qilian Shan e Hei Shan; già allora considerata l’ultimo avamposto dell’impero, è ancora lì oggi, solida e bella allo stesso tempo, ancor più nella luce di un tramonto che pare attingere i suoi rossi e gialli ed arancioni dalla tavolozza del deserto circostante.

Si resta nel tema delle opere pittoriche con un’altra meraviglia: le tombe Wei-Jin, scavate intorno al secondo-quarto secolo dopo Cristo ad alcuni chilometri di distanza da dove oggi si erge Jaiyuguan e riscoperte solo recentemente. Piccole ai limiti del claustrofobico, tanto che dobbiamo dividere il gruppo in due per potervi entrare, conservano un vero tesoro: le loro pareti sono decorate da immagini, in alcuni casi dipinte con le mani, che rappresentano scene di vita comune dell’epoca. Come sfogliando un fumetto, possiamo quindi renderci conto di come fossero allora la pesca, l’agricoltura, la caccia, persino i pasti (c’è un’immagine particolarmente famosa, perché sembra mostrare persone che mangiano con coltello e forchetta, oggi quasi un sacrilegio per i cinesi, così abili nell’uso dei bastoncini). I colori sono semplici, i tratti essenziali, nulla di spettacolare come certi dipinti che ho visto all’interno delle piramidi egizie o i mosaici romani di Ravenna, ma la sensazione che provo è la stessa: essere partecipe, anche solo per un momento, di una vita che non c’è più, e che però qualcuno ha rappresentato anche, forse, per farcela conoscere.

Un viaggio di circa tre ore in pulmino ci porta a Dunhuang, dove le enormi dune di sabbia intorno al lago della Luna Crescente sembrano contenere a stento il deserto del Gobi, uno dei più aridi della Terra. Anzi, più che contenerlo ne sono parte, in continuo movimento, con i granelli che cadono a valle spinti dalle migliaia di turisti che vi zampettano intorno, per poi venire risospinti (i granelli, non i turisti) in alto dal vento che soffia incessante. Gelati, cammelli (quelli a due gobbe, ché pare si siano evoluti proprio in questa zona, probabilmente avendo bisogno di più scorte di cibo e acqua per affrontare le lunge distese), souvenir: nulla ferma il continuo attacco delle formiche umane a queste bellezze naturali, tutti quanti a sudare mentre scalano le dune nei loro elegantissimi copriscarpa arancioni noleggiati al centro visitatori. Una parte del mio gruppo va a fare una cavalcata (anzi, una cammellata), mentre io ed altri due ci inerpichiamo, per vedere se davvero il panorama visto da lassù ha un suo valore… e ce l’ha: le curve giallo arancio che si sovrappongono e si mischiano fino all’orizzonte sono deliziosamente rilassanti, come un mare cristallizzato in un istante; e, di sotto, il lago, che a vedere bene pare più una laguna, privo di molta dell’acqua che lo rendeva una volta preziosissima oasi.

Dunhuang era un tempo un punto importantissimo lungo le Vie della Seta, l’ultimo in cui le carovane potevano fare rifornimento prima di avventurarsi in quello stesso splendido deserto; era qui che le Vie cominciavano a dividersi, verso nord e verso sud. Ma la sua fama odierna è principalmente dovuta alle Mille Caverne di Buddha, un insieme di grotte scavate nella parete di una montagna e che contengono qualcosa come 2415 sculture colorate di argilla e circa 45000 metri quadri di pitture murali. Il clima caldo ed arido ha conservato la maggior parte di tali pitture, e ad oggi una quarantina di grotte sono aperte al pubblico, che ordinatamente le visita assieme alle proprie guide. Lo facciamo ovviamente anche noi, e ascoltiamo le spiegazioni mentre ammiriamo (le fotografie sono proibite) estasiati la bellezza di queste opere create secoli fa per celebrare l’importanza di Buddha e dei suoi insegnamenti.

Un treno proiettile (che poi, proiettile… va sì e no a 210 km all’ora, praticamente la velocità di una delle nostre Freccie) ci porta a Turpan, uno dei punti più bassi del pianeta, dove le piogge non cadono praticamente mai; e pensare che una volta le oasi locali erano le produttrici delle migliori uve della Cina. Ma a noi dell’uve importa poco, specie mentre visitiamo un altro luogo affascinante, di quelli che ti trovi davanti senza forse mai averne sentito parlare e ti chiedi il perchè: la città “fantasma” di Jiaohe, antica capitale del regno Jushi, costruita nel secondo secolo avanti cristo su un altipiano isolato da due profonde valli, ottima difesa da possibili attacchi nemici. Mi ricorda Chan Chan nel nord del Perù, con i resti delle sue costruzioni fatti di mattoni di fango; il sole, ed il suo splendido isolamento, la rendono una vista incredibile, e le fotografie si sprecano, così come i commenti entusiastici.

Ma il sole non dura per sempre, in Cina. Così, Urumqi ci accoglie con freddo e piogge, e se non fosse che la strada per arrivarci passa valichi montani purtroppo solcati da grandi opere in cemento armato (il progresso non si ferma, così come non si interrompono le nuove autostrade), forse la cosa ci prenderebbe di sorpresa. Per nostra fortuna, Urumqi è solo una base per viaggiare verso Kashgar, nostra ultima tappa qui in Cina, e il suo ottimo museo provinciale ci permette di imparare varie cose su questa regione della Cina senza doverci bagnare all’aperto… quando si dice la fortuna!

 

Daniele Binaghi (pecorelettriche.it)

 

Le altre puntate:

#1 Da Venezia al Kirghizistan

#2 Lo yurt, questo sconosciuto

#3 Dove riposavano le carovane

#4 La vecchia nuova Kashgar

#5 L’ultimo, povero Khan

#6 Divertirsi sulle Fan Mountain

#7 Non è poi così lontana Samarcanda

#8 Grandi masse rosse

#9 Fare le cose in grande