#Vicenzaore16 – Cronache di normalità familiare in tempi non normali: è tutto “quasi” come prima
Siamo a metà aprile 2020 ormai e ciò che sembrava impossibile è realtà quotidiana: il cambiamento arriva repentino e l’adattamento lo segue sempre, inevitabile per sopravvivenza, ma con un po’ di comprensibile ritardo. Ci mettiamo un po’ ad abituarci perfino ai cambiamenti belli, trattenuti da un istinto che ci fa sentire più sicuri nella cosiddetta comfort zone di ciò che conosciamo, figuriamoci quanta umana resistenza opponiamo ai cambiamenti “brutti” o che consideriamo tali.
Quello di stare in casa, interrompendo forzatamente tutte le nostre abitudini sociali date per scontate, è stato un cambiamento forzato che ha generato resistenza prima e resilienza poi. Come dire, in primo luogo ci irrigidiamo, qualcosa dentro noi si oppone, si erge a scudo, vorrebbe difendere il “prima” a tutti i costi; poi più o meno tutti cediamo, ci adattiamo, riformuliamo il nostro essere e vivere con le nuove regole. Questo grosso guaio chiamato Covid19 può essere visto come un esperimento sociale planetario ma anche come un modo per esplorare il nostro microcosmo familiare traendone qualche curioso insegnamento.
Devo ammettere che, per natura e per una serie di circostanze complementari, il divieto di uscire e le restrizioni di questi ultimi tempi non hanno cambiato molto le nostre abitudini familiari: io ho sempre lavorato da casa come freelance e ho semplicemente continuato a farlo; nell’ultimo anno la pizza fatta in casa e le serate in famiglia (a casa nostra o di amici) hanno sostituito le uscite in pizzeria/ristorante anche per rimanere in linea non con la bilancia ma con il budget (se dico separazione e ristrutturazione vi do solo un indizio); per lo stesso motivo non mi manca nemmeno lo shopping che già non facevo da tempo; non ho mai avuto la smania di riempire i pomeriggi dei bambini con corsi e sport vari, quindi le ore lente da passare in casa e in giardino non sono una novità; ho sempre cucinato tanto, con gioia; vado dal parrucchiere quattro volte all’anno, ragion per cui sono spettinata ora come lo ero prima; insomma, non posso dire di avere una vita quotidiana stravolta dalla pandemia.
Certo, qualche cambiamento c’è stato: impossibile lavorare come prima con due bambini a casa. Vengo interrotta continuamente, tanto che mi affiorano alla mente parolacce che non pensavo di conoscere e che non posso nemmeno inserire nel curriculum sotto la voce “nuove skills acquisite nel periodo di crisi” come tanti che nei social dicono di approfittare virtuosamente del tempo in più per seguire i corsi più disparati (campane tibetane rap e mindfullness per cani, per esempio).
Io però altrettanto virtuosamente posso dire che i miei figli nonostante tutto sono ancora vivi e che il grande (8 anni, terza elementare) è al passo con i compiti anche se per farglieli fare devo inventarmi minacce strutturate e complesse stando però attenta che non mi si ritorcano contro; per esempio, il “non ti faccio più guardare cartoni animati fino a novembre” è da evitare, visto che in mezz’ora di cartoni io riesco per esempio a scrivere un articolo e far sopravvivere quel neurone sano che mi resta. I cartoni non si toccano, sono un MIO diritto! La piccola (3 anni e mezzo) si è specializzata nel concentrare tutte le domande imbarazzanti e le esigenze corporali sincronizzandole con le mie telefonate di lavoro, così che ora i clienti potrebbero iniziare a identificarmi come “la grafica con la bambina che fa sempre la cacca”. Sempre da mettere nel curriculum, immagino.
Un’altra cosa diversa da prima è che non posso più camminare tanto: io, che di solito arrivo quasi ovunque a piedi, ora non posso e mi manca. Giacomo ha rimpiazzato il movimento spontaneo con i work out programmati, se ne trovano gratuitamente su YouTube, di varie intensità: ha coinvolto me e anche i bambini, ne facciamo ogni giorno uno diverso e oggi sto temporeggiando a scrivere un po’ di più perché quando finisco l’articolo mi aspetta una sessione di 45 minuti a cui non so se sopravviverò: in caso contrario, sappiate che preferivo camminare.
Ieri ho avuto il mio primo, breve ma intenso momento di sconforto quando mi sono resa conto che la libertà in ogni caso, anche se poco, anche se non per sempre, è comunque limitata. Volevo comprare delle piante da siepe per continuare il lavoro di giardinaggio iniziato un mese fa con la semina dell’erba e che vorrei portare a termine simbolicamente entro la fine di questa emergenza. Mi sono scontrata con diverse difficoltà: il Garden che avevo individuato prima della quarantena, è chiuso e non fa consegne. Ne ho trovati altri due, uno è carissimo, l’altro deve ancora rispondere ai miei messaggio causa troppi ordini: e sono rimasta “bloccata” con la mia esigenza che in tempi normali sarebbe stata facilissima da soddisfare e ora diventa praticamente impossibile.
Banale, si sopravvive anche senza siepi da piantare, ma mi sono sentita limitata in qualcosa di concreto e non è stata una bella sensazione. Lo stavo raccontando alla responsabile marketing di un’azienda con cui lavoro, in videochiamata, ed eravamo entrambe abbastanza demoralizzate quando è intervenuta Eva, dicendo che voleva salutare. E io subito, ma certo, di’ ciao amore. Lei si inserisce prendendo tutto il primo piano e sorridendo saluta con un meraviglioso: “Ciao, lo sai che la mia mamma ci ha la patata?”. Sipario.