Hereditary – Le radici del male
Non ricordo precisamente che giorno fosse. Mi passò anche inosservato, lo devo ammettere. Fu perché in molti ne parlavano. Persone di cui nutrivo e nutro ancora una certa dose di stima. Quasi subito ne fui attratto, sospinto da una forza sconosciuta che solo certi titoli riescono a risvegliare dentro di me.
Purtroppo il tempo a mia disposizione non mi consentì di vederlo in sala. Lo riconosco: un grave errore. Di colpo mi buttai sull’acquisto del blu-ray, distribuito dalla Midnight Factory. Arrivatomi a casa nel primo pomeriggio, levai quella pellicola sottile che avvolge e protegge la custodia. Un momento piacevole, quasi sacro per il collezionista che si vede qualcosa di nuovo tra le mani e già si interroga, freme dal desiderio di aprirlo, di scoprire il contenuto.
Quella sera salii nella mia stanza. Accesi il proiettore e il lettore contemporaneamente. Un suono elettronico, una luce soffusa, segno che la lampada si stava riscaldando. La bocca del lettore si apre e si chiude in rapida successione. La luce si amplifica e il film inizia.
Guardare Hereditary – Le radici del male è invero un’esperienza che vista come ve l’ho raccontata, è risultata qualcosa di veramente unico. Qualcosa che ricordo e che mi è rimasto impresso fino ad oggi, dopo quasi due anni dal suo arrivo.
Il film si apre sulla cerimonia funebre di Ellen, la mamma di Annie (Toni Collette). La donna è atterrita dalla presenza di molti sconosciuti al funerale della madre e le risulta doppiamente difficile pronunziare il suo elogio funebre. Di fatto, dietro alla sua tiepidezza si nasconde un rapporto complitato e torvido con Ellen.
Giunti a casa Annie torna al suo laboratorio di modellismo. Tra le cose lasciate dalla defunta madre, scopre un grimone, un libro di incantesimi, con uno strano messaggio indirizzato a lei. Annie ha l’impressione di aver visto sua madre aggirasi per la casa e qualche giorno più tardi suo marito Peter (Alex Wolf) riceve una telefonata dal cimitero dove è stata sepolta: la tomba di Ellen è stata profanata e il cadavere è scomparso.
Miti, leggende e maledizioni. Il male si cela, radicato, ma oramai dimenticato in un mondo così modernizzato e sicuro di sé. La paura che arriva da Hereditary è reale, perché quel mondo si rivela essere il nostro, dove l’occultismo è una pratica estranea, caduta nell’oblio. Quei poteri nascosti nelle profondità del mondo, qui prendono il dominio e ci assoggettano al proprio volere.
Nella sua grande maestria, il regista Ari Aster, qui al suo primo lungometraggio, ci mostra un mondo dove noi siamo null’altro che vittime sacrificali. C’è una certa perversità e falsità nel modo in cui Aster racconta la sua storia ed è proprio questo carattere a simboleggiare l’astuzia del demonio. Quell’astuzia con cui si insidia nelle persone, le travia e ne fa delle marionette con cui raggiungere il proprio scopo, ovvero quello di risorgere. E’ quindi proprio quando smettiamo di credere che il diavolo esiste, che egli diventa più forte.
La paura in Hereditary la conosciamo fin da subito. Ci vuole pazienza, ma una volta che si è entrati in contatto con i personaggi, non si può che rimanere distesi su un letto di angoscia. L’elettroshock arriva quando meno te lo aspetti, scombussolandoti il cervello e portandoti a provare una vasta gamma di sensazioni, l’una opposta all’altra. In un momento odi i personaggi, ti fanno quasi pena per come si comportano tra di loro. In un altro momento provi compassione per loro e preghi e speri possano salvarsi, perché quello che gli sta accadendo è veramente qualcosa che non augureresti nemmeno al tuo peggior nemico.
Da tutto questo insieme di aspetti, capiamo quanto il film sia assolutamente straordinario. La tecnica, la fotografia, la musica, i diversi collegamenti che vi sono all’interno del contesto filmico, sono assolutamente qualcosa di perfetto.
Hereditary trascende i dettami del genere e definirlo semplicemente horror è limitante, per un film che ha dentro di sé molto del cinema classico, come Rosmery’s Baby (1968) di Roman Polanski o The Wicker Man (1973) di Robin Hardy, che vedremmo risuonare perfettamente nella pellicola successiva di Ari Aster, ma il film sperimenta, rimodellando e rigenerando il genere, diventando qualcosa di ulteriore e giunti alla fine non si può che uscirne sconcertarti.
Titoli di coda. Rimango in silenzio qualche istante. La bocca del lettore si riapre e si richiude. Un suono elettronico. La luce si spegne. Rimane solo il buio. Un buio terribilmente profondo.10