Perché “Adolescence” è la serie tv di cui gli adulti avevano bisogno

C’è una serie che sta facendo molto parlare di sè praticamente in tutto il mondo. Si chiama Adolescence, è prodotta ed ambientata in Gran Bretagna e parla, come si può capire dal titolo, degli adolescenti di oggi, delle loro fragilità e zone oscure, ma soprattutto di quelle degli adulti. Si può vedere su Netflix e inizia (stiamo attenti a non spoilerare nulla) con l’arresto di un tredicenne accusato della morte di una compagna di scuola: l’equilibrio di una famiglia inglese viene infatti stravolto quando il figlio tredicenne Jamie viene arrestato per l’omicidio di Katie.

Ormai è chiaro che si tratta sicuramente della miglior serie (sono solo quattro puntate) uscita degli ultimi anni. E non solo perchè girata in un unico piano sequenza di un’ora (una sola unica ripresa continua), scelta di produzione che trascina letteralmente lo spettatore dentro a una storia angosciante, ma anche perchè esplora come mai prima d’ora il mondo dei giovanissimi nell’era dei social.

Un consiglio agli adulti: guardatela

Stephen Graham, che ha ideato Adolescence e ne è il co-protagonista, ha dichiarato che non si tratta di una storia vera ma una denuncia per l’allarmante aumento di aggressioni con coltello nel Regno Unito. Un dato che trova riscontro anche in Italia: nel 2024 l’incidenza dei delitti commessi da under 18 si attesta all’11% del totale degli omicidi rilevati, a fronte del 4% dell’anno precedente, mentre sale al 7% la percentuale di minorenni uccisi.

Adolescence è una serie durissima e vera, che agli adulti apre gli acchi sull’abisso del mondo on line a loro sconosciuto, frequentato dai figli adolescenti. È la prima a mettere gli adulti di fronte alle angosce e debolezze dei giovanissimi, ma svela senza remore soprattutto i limiti di genitori, educatori e pure le forze dell’ordine, ignari dei “codici” per capire il mondo “teen”, le emozioni che lo attraversa e i rischi drammatici che i social comportano.
Durante le quattro puntate si entra nel mondo della mascolinità tossica e ci familiarizza con parole come manosfera (la rete sessista di comunità maschili online) e incel (contrazione di “involuntary celibate”, ossia uomini che non sono in grado di trovare una partner).

Quello che emerge nel corso della storia è l’incapacità degli adulti di essere davvero dei punti di riferimento autorevoli, la loro incapacità di capire come gli adolescenti stanno su Instagram e Tik Tok, dove i rapporti con gli altri sono spesso spietati. Emerge, lampante, anche la non autorevolezza degli insegnanti. In Adolescence si parla anche di cyberbullismo, di gestione della rabbia, dell’incapacità dei giovanissimi di gestire la frustrazione, ma soprattutto di una estrema, profonda, indicibile solitudine della quale gli adulti non si accorgono.

Insomma, è una serie necessaria, che a noi adulti fa da specchio, un prodotto televisivo che per la prima volta ci conduce per mano in territori mostruosi, oscuri e inesplorati, dove l’inadeguatezza e la fragilità tipica dell’adolescenza si schiantano addosso alla mancanza di empatia, che è la peggior malattia di questi nostri tempi. Una serie che prova a darci una durissima chiave di interpretazione di quello che succede in tante camerette. Che a noi adulti paiono sicure e non lo sono per niente.

 

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