L’integrazione è in processo: Comune e politica facciano la loro parte, sempre

Su Thiene si sono accese le luci della ribalta nazionale per la preghiera comunitaria islamica nel parco di Villa Fabris, che ha visto le donne pregare dietro ad un telone, un vero e proprio “separè” simile a un “recinto”, come lo ha definito anche il deputato vicentino della Lega Erik Pretto. Il sindaco Giampi Michelusi ha risposto in modo piccato alla polemica innescata dal politico del Carroccio, motivando che dopo la preghiera uomini e donne di fede islamica (la comunità bengalese) hanno vissuto un momento di convivialità unitario e che la divisione fra uomini e donne nella preghiera non ha violato alcuna legge o regolamento. Le minoranze hanno annunciato una interrogazione in Consiglio Comunale. Nel frattempo la comunità bengalese ha spiegato che quel telone è dovuto ad un senso di “protezione” verso le donne, mentre il centro islamico Il Futuro ha ricordato tutti gli sforzi di apertura e integrazione che la loro associazione mette in campo da molti anni.

Al di là delle polemiche, proviamo però a guardare quanto accaduto con maggiore distacco e con uno sguardo più ampio, facendo alcune considerazioni. A partire dal fatto che oggettivamente quanto accaduto è una forma di espressione della cultura patriarcale, che è trasversale rispetto a popoli e religioni e prevede che l’uomo detenga l’autorità e il potere sul resto della famiglia.

La prima considerazione è che quando si parla di religione, fede e sacro, tutto è molto più complicato e delicato. Basti dire che una delle istituzioni dove maggiore è la discriminazione di genere e più forte è l’impronta del patriarcato, è proprio la Chiesa Cattolica, a partire dal fatto che il sacerdozio è una funzione riservata solo ai maschi e qualsiasi tentativo di cambiare lo stato delle cose si è infranto come un’onda su una roccia. Eppure nessuno di noi si permetterebbe di dire al vescovo o al Papa come e chi deve celebrare la messa (ad esempio) in uno stadio, che ruolo dovrebbero avere le suore e via dicendo. E fino a una cinquantina di anni fa anche nelle nostre chiese gli uomini e le donne si sedevano il posti diversi e queste ultime indossavano il velo (e nel sud del nostro Paese ancora accade).

Una seconda considerazione riguarda però il ruolo che ha un’amministrazione comunale nel rimuovere gli ostacoli verso una effettiva parità di genere e l’opportunità di “direzionare” in questo senso anche rispetto alle regole sull’uso degli spazi pubblici.  L’idea stessa espressa (forse un po’ malamente e sulla difensiva) dalla comunità bengalese che quel “separè” fosse una forma di “protezione” della donna (considerandola quindi un soggetto fragile, privo di una propria autonomia e libertà di scelta) è espressione di una forma di cultura patriarcale che spesso non viene messa in discussione (purtroppo) neanche da molte donne di queste comunità straniere (ma non ci deve stupire, perchè accade ancora anche a molte donne occidentali di non mettere in discussione il patriarcato).

Per questo accompagnare nel tempo singoli e comunità a introiettare i limiti di questo pensiero è necessario sia che si tratti di italiani che di cittadini appartenenti ad altri popoli, religioni culture e la promozione della parità di genere va promossa anche nelle situazioni in cui è più difficile farlo. L’integrazione però non cade dal cielo bella e fatta, è un percorso, un processo anche lungo, da fare passo passo, a volte mettendo in conto anche qualche momentanea regressione. Anche i Comuni possono imparare dagli errori e modificare quindi le regole di concessione degli spazi pubblici, quando ci si accorge che la direzione va raddrizzata. D’altronde, il tema della separazione fra donne e uomini nella preghiera comunitaria musulmana non è un assoluto: le moschee “miste” esistono già da tempo e c’è da credere che nel giro di qualche anno questo diventerà normale magari anche a Thiene. Ma per essere reale la parità di genere deve essere fatta “con” le persone, non “contro” le persone.

Infine un’ultima considerazione più generale sull’integrazione: lascia un po’ perplessi la richiesta che “gli spazi pubblici possano essere concessi esclusivamente a coloro i quali dimostrino di aver effettuato un percorso di piena integrazione nella nostra società” perchè, come detto, l’integrazione è un processo a lungo termine, frutto di impegno reciproco e continuo, nonchè un investimento di tempo e risorse da parte pure della comunità “ospitante” e quindi della politica nazionale, cosa che spesso non è avvenuta. Come dire, si pretende integrazione senza fare niente perchè avvenga. Infine, aspettiamo anche con fiducia che chi esige il rispetto dei “valori fondamentali della nostra società civile” da parte delle comunità straniere difenda pure le conquiste di civiltà in favore dell’integrazione scolastica degli alunni e le alunne con disabilità, prendendo le distanze dalle affermazioni dell’ex generale Vannacci (collega di partito) sulla necessità di tornare alle classi differenziali. Al momento, non è pervenuta.