La caposala ricoverata per Covid-19: “Ringrazio i miei colleghi in prima linea”
Ero a casa positiva da una settimana quando, un pomeriggio, mi sono svegliata con 39.4 di febbre. Avevo già cambiato due antibiotici, la tosse continuava e il respiro era molto limitato. Appena inspiravo, la sensazione di un pugnale sul torace mi bloccava. Fino a quel momento avevo cercato di sdrammatizzare e di pensare che il Coronavirus sarebbe passato come era arrivato. Lì invece ho avuto chiaro che dovevo andare in Pronto Soccorso.
Chiamo il mio medico per capire cosa fare. Dopo sette telefonate assurde, decido di farmi accompagnare da Gianni, che non avrebbe potuto perché anche lui in quarantena. D’altra parte, non trovo risposte: il mio medico mi dice di chiamare il 118, il quale mi dice di rivolgermi al servizio di igiene pubblica, che mi dice di risentire il mio medico. A questo punto, addirittura, sembra debbano accompagnarmi i carabinieri. Mi richiama il 118: mi dice di andare con mezzi propri all’ospedale di Santorso, mentre loro nel frattempo avvisano in ospedale del mio arrivo. Mi dicono anche di suonare il campanello: l’infermiere di triage mi avrebbero indicato l’entrata predisposta per i pazienti Covid. Passo prima dal mio medico che mi presta un saturimetro: la saturazione è 92. E’ evidente che bisogna fare degli accertamenti. Il respiro è superficiale.
Arrivo in Pronto Soccorso e trovo Stefania, un’ anima amica, che mi apre la porta. Mi fa entrare dall’entrata dei pazienti positivi. Gianni resta in sala d’attesa fino al mio ricovero, poi viene avvisato e torna a casa. Da questo momento, per 16 giorni, non vedo più nessuno dei miei familiari. Mi viene in mente che alla partenza mio figlio Marco non era in casa. Mi aveva chiamato finché salivo in auto e ironicamente mi aveva detto: “Mamma, non ti ho neanche salutata! Poi magari non ti vedo più e resto con questo magone!”. Durante i momenti tosti, questa battuta ironica, che allora era sembrata impossibile e assurda, continua a tornarmi in mente, perché con questa malattia succede proprio così: parti con le tue gambe, saluti, e poi non torni più.
In Pronto Soccorso trovo anche Michela, una collega che mi segue con tanta amorevolezza. Il primario mi visita. È tutto strano: io sono stata caposala in Pronto Soccorso e ora invece mi trovo dall’altra parte. Mi fanno gli esami del sangue e una radiografia del torace, mi iniettano anche il paracetamolo in vena che mi fa scendere la febbre: mi sembra di essere rinata. Il referto del torace fa decidere per il ricovero. Dentro di me sono pronta. Mi accompagnano in stanza, i miei colleghi sono di una cortesia disarmante, quasi a cercare di ricompensare la mia preoccupazione, la paura di quello che mi sta succedendo. Arriva in stanza il dottor Carlotto: lo conosco bene, sono abituata a vederlo per i problemi infettivi dei pazienti ricoverati, ma ora è lì per me. E’ pallido, parla con un filo di voce, percepisco la sua stanchezza. Mi propone, se sono d’accordo, la terapia sperimentale dello Spallanzani: Plaquenil e Kalettra. Mi suona male, un farmaco che cura l’Hiv. Due stati d’animo si accavallano in me: da una parte la sensazione che la situazione deve essere critica, dall’altra la gioia di avere un’opportunità terapeutica, che se pur in sperimentazione, è sempre un’opportunità. Mi consegna lo stampato con tutta la spiegazione della terapia: non avrò mai il coraggio di leggerlo. Si deve fare e si fa.
Da qua in poi è tutto un susseguirsi di momenti duri. La terapia dà effetti collaterali importanti e quindi mi accadono contrattempi che non avrei mai immaginato mi succedessero. Il personale mi aiuta, mi sta vicino come fossi un familiare. Ricoverano vicino a me una signora: è la moglie di un mio paziente. Siamo state insieme in reparto il giorno in cui tutta questa storia è iniziata. Mi dice che anche suo marito è positivo. Nei giorni a seguire, oltre a lei che è in stanza con me, sono ricoverati altri sei pazienti del mio reparto nelle stanze vicine. La situazione è assurda: li sento urlare, proprio come facevano quando io ero la caposala della corsia che li ospitava. Ora vedo la loro sofferenza da un’altra prospettiva.
La prima sera Sonia, altra collega, allestisce la postazione del mio letto con l’ossigeno: la guardo preoccupata. Lei sa che i miei polmoni richiederanno aiuto. Mi applicano gli occhialini nasali per l’ossigeno: respiro meglio, sono contenta ma vuol dire che da sola non ce la faccio. Il bip del saturimetro mi mette in ansia, so che la situazione è instabile. La sera successiva alle 23, mentre io sono assopita, arriva il dottor Ferretto, che è di guardia di notte. E’ un dottore che conosco e stimo: mi fa un prelievo arterioso. Mi chiedo il perché a quell’ora, ma dentro di me so che significa le cose non vanno molto bene, ma non chiedo per non mettere in difficoltà nel rispondermi. Con il referto, il medico decide di togliere gli occhialini e mettere la maschera: va un po’ peggio, penso. Il giorno dopo la saturimetria traballa, ad un certo punto arriva scherzosa un’anestesista a vedermi, mi dice che è lì per caso: i brividi mi percorrono tutta la schiena, capisco che posso finire intubata.
Prego, non ho forze, ma ho la sensazione che il pensiero e le preghiere di chi mi vuol bene mi sostengono, come un tronco che scivola dentro un torrente: io non riesco a fare niente ma è l’acqua mi sostiene, mi fa progredire, mi tiene su. Questa sensazione mi dà pace. Sono tanto preoccupata per Marco e Ilaria, i miei figli: non riesco a rispondere ai messaggi, le telefonate mi mettono in difficoltà ma devo cercare di non angosciarli.
La notte è dura. Ad un tratto sento in corridoio Silvia, un’infermiera e un’anima cara, che accoglie una famiglia con un bimbo molto piccolo e dice: “Ciao piccolo miracolino!”. Questa cosa mi fa tanto bene al cuore, sono contenta di sentire tanto amore verso una creatura! Gli infermieri mi rilevano la saturimetria ogni mezz’ora o un’ora, io mi assopisco, non sono del tutto lucida. Provo a pregare, chiedo con tutte le mie forze a chi è in Paradiso di preservarmi per i miei figli. Ho paura di lasciarli soli. Mi sembra di avere vicino quel Gesù del Crocifisso che vedo appeso: è li con me. Con una mano mi chiede, ma con una mano mi dà: faccio esperienza, intensissima, di tante cose, quella notte.
Arriva giorno, entra un raggio di luce dalla finestra. Scoppio in un pianto dirotto, non riesco a smettere. Ho la percezione – precisa – di averla passata, non so né come né perché, ma in cuore sento che sono e starò ancora qua con i miei figli. Le condizioni cliniche si stabilizzano, io non riesco a mangiare neppure a bere, la nausea non mi lascia un attimo, sono a letto con 12 litri di ossigeno e non posso neppure andare in bagno, ma sono serena. Dentro di me sento forte che devo fidarmi. Come avessi in mano un tizzone ardente e me ne dovessi liberare in fretta per non scottarmi. Lo butto via e non devo più pensarci. I giorni si susseguono, la paura spesso ha il sopravvento, allora faccio un atto di fede, prego e pian piano mi calmo.
Sono ricoverata nel reparto dove ero caposala qualche anno fa: alcuni infermieri sono miei ex colleghi, amici. Mi sento voluta bene, coccolata. Pian piano mi riducono l’ossigeno fino a toglierlo, la situazione è controllata. Mi fanno i tamponi, sono negativi: posso tornare a casa.
Quando lascio il reparto, esco dalla stanza un po’ traballante: infermieri, caposala e operatori sono tutti a salutarmi in corridoio. Sono tanti. Una strana sensazione mi pervade: non mi sembra neanche il “mio” ospedale, il reparto dove ho lavorato. Non riesco a trattenere le lacrime, non riesco esprimere la riconoscenza che provo per ciascuno di loro, che rischiando ogni giorno ce la mette tutta per prendersi cura di ogni paziente. Esco dal reparto e vedo Gianni, pallido, dimagrito, anche lui con i segni visibili di questo Covid. E’ una sensazione strana, le lacrime scendono e cadono sul pavimento, ma provo una gioia incontenibile! Torno a casa da Marco e Ilaria!!! Il peggio è passato!
Fabiola Pozzer