Il racconto di Omar, il “giornalista col Coronavirus” ricoverato al Covid-4 di Santorso
3 aprile – 3 maggio 2020. A un mese giusto dal ritorno a casa, l’intervistatore diventa intervistato e racconta come ha attraversato l’incubo del Coronavirus. Sì, perché la nostra testata questa epidemia l’ha vissuta da dentro, dato che si sono ammalate, alcune anche pesantemente, persone a noi molto vicine. Addirittura, il virus ce l’abbiamo avuto dentro la redazione, dato che il Sars-Cov2, detto anche Covid-19, ha contagiato il nostro giornalista Omar Dal Maso, ricoverato per due settimane nel reparto Covid-4 dell’ospedale di Santorso.
Per una volta, quindi, con “licenza giornalistica” alla stregua di quella poetica, sarà Omar stesso questa volta a rispondere alle domande, anziché farle lui all’intervistato di turno. Risposte scritte dopo qualche giorno, poi messe in un cassetto in attesa della guarigione, che arriva ben dopo i due fatidici tamponi negativi e i controlli medici successivi, perché la via verso la normalità vera e totale è molto più lunga di quello che raccontano i grafici nella colonna “dimessi/guariti” delle statistiche della Protezione Civile e della Regione. Ecco allora questa intervista, per chi avrà voglia, tempo e sensibilità di approfondire l’appuntamento con il Covid-19 di un uomo sano di 42 anni, allenatore di calcio a cinque femminile. Un appuntamento al buio. Più completo.
16 marzo 2020: improvvisamente, Omar, alla tosse si aggiunge la febbre. Da tre settimane scrivevi di Coronavirus. Quali son stai i tuoi primi pensieri?
“Devo ringraziare la mia professione, proprio il fatto di averne scritto quasi da un mese, per avermi permesso di affrontare il pericolo imminente per i miei famigliari con una cautela che si è rivelata fondamentale per “giocare d’anticipo”. I dubbi che qualcosa non andasse per il verso giunto li avevo già da un paio di giorni, per sintomi minori e meno conosciuti come uno strano bruciore agli occhi mai provato prima e crampi inspiegabili alle gambe (mialgia). Poi qualche colpo di tosse, e alla sera 8 linee di febbre: lì ho avuto conferma del sentore che provavo, anche se tutto sommato mi sentivo bene. Il primo pensiero è stato chiedere come comportarmi alla guardia medica, avvisare la redazione di Eco e isolarmi in casa per precauzione. Nei giorni successivi, la perdita progressiva di senso del gusto e dell’olfatto è stata la firma in calce del coronavirus”.
Che situazione hai trovato al pronto soccorso?
“Dal momento in cui ho messo un piede dentro al PS2 Covid dell’ospedale di Santorso, fino a quando sono uscito, 15 giorni dopo, non posso che elogiare chiunque ho incontrato. Semmai nutro molte perplessità sui protocolli imposti nel pre-ricovero: accedere ai tamponi sembrava un lusso o era riservato a ‘moribondi’. L’ho trovato assurdo: il mio pensiero andava alle persone entrate in ospedale nel nostro Paese troppo tardi per poterli salvare. Io, invece, che in apparenza sembravo sano o comunque in condizioni discrete, sono stato ricoverato d’urgenza nel giro di un’ora con una polmonite interstiziale bilaterale. Mi era bastato vedere l’espressione del tecnico radiologo per intuire che si stava mettendo male. Ero partito da casa solo con i vestiti che avevo addosso, con l’intenzione di effettuare il tampone e tornarmene alla base; quando, invece, un’infermiera bardata da “astronauta” mi ha comunicato che sarei salito in reparto Covid ricordo di aver abbassato lo sguardo al pavimento. A farmi coraggio sono stati altri due uomini, uno era un ragazzo, che come me aspettavano il responso. Tra i tre in attesa sono stato l’unico risultato positivo”.
Quale è stata la preoccupazione dei primi giorni? Fisicamente come ti sentivi?
“Devo essere onesto, non sono mai stato in condizioni così critiche da poter arrogarmi il diritto di parlare di sofferenze fisiche. O comunque tutto è stato sopportabile, effetti collaterali delle cure compresi. Nel corso della prima notte di ricovero ho avuto una crisi respiratoria di cui non saprei valutare l’entità, ricordo che alle tre di notte mi hanno applicato la maschera dopo avermi marcato stretto per ore. I miei polmoni avevano bisogno di ossigeno. Preoccupazioni? E’ una valanga che ti travolge, l’angoscia ti toglie più aria di quella di cui ti priva il virus, per me è stato così”.
Come si vive nel limbo di non sapere il risultato del tampone?
“Dall’attimo seguente alla radiografia mi sono preparato all’evidenza. In cuor tuo rimane solo un pulviscolo di speranza che si tratti di altro. ‘Il quadro clinico è suggestivo di contagio’ mi rispose una dottoressa il giorno dopo, su mia richiesta. Bisognava attendere l’esito del tampone, 36 ore di centrifuga di sentieri interiori e sentimenti, sicuramente le più dure. Il mattino dopo, il buongiorno sono state due frasi, dirette e senza fronzoli, ma proferite con calore umano e trasparenza da un medico infettivologo: “Il suo tampone è positivo” e “devo dirle che non esiste una cura”. E’ stata la seconda volta che ho abbassato la testa: la valanga era arrivata, puntuale. Ma mi sentivo già pronto a scavare verso l’alto per risalire. L’angoscia per chi avevo lasciato a casa era diventato terrore puro, dalle 10.06 di domenica 22 marzo fino al termine della quarantena di chi era a casa. Da dove mi trovavo non potevo scavare per nessun altro che per me stesso, impotente di fronte al destino e al futuro di chi amo di più al mondo”.
Che ambiente hai trovato in reparto?
“Covid-4 originariamente era chirurgia, nell’ala riservata all’urologia. Il reparto era stato convertito il giorno stesso del mio arrivo, o quello precedente. Idem per i medici, gli infermieri e il personale socio sanitario e ausiliario: tutti si sono trovati dentro quello che ai telegiornali definivano come un girone dell’inferno. Smarrimento e timore si percepivano in qualcuno: umanamente comprensibile. Poi passano giorni, il rodaggio per tutti si conclude, e anche chi inizialmente era magari impaurito o in imbarazzo l’ha superato e si è instaurato un clima diverso e perfino gioviale in qualche momento. Sono passato dal sentirmi in colpa per essere una sorta di appestato pericoloso a un membro seppure fragile di quella che per quei 15 giorni è divenuta una seconda famiglia, dove parole buone, incoraggiamenti, cordialità insieme alla professionalità nell’assistenza non sono mai mancati. Dei medici e degli infermieri – gli “astronauti” – si sa quanto rischino in prima linea. Ma non dimentichiamoci del personale che ti porta i pasti, ti riassetta il letto e compie le pulizie. Ricorderò le loro paure silenziose come la loro empatia nei miei confronti, costituivano la mia normalità sociale se così posso definirla, nessuno mi ha mai negato una parola buona”.
Tu hai scelto di “sconnetterti” da gruppi e chat. Come redazione lo abbiamo trovato comprensibile ma ci ha preoccupato. Come è nata questa scelta?
“Non era un’avvisaglia di resa, in realtà volevo staccare il più possibile dalla malattia, ho seguito il consiglio di un’amica e di un’infermiera: non stare dentro con la testa h24 nella bolla del Covid perché è controproducente. Già le prime notti non si chiude occhio, si scannerizzano tutti gli istanti dei 15 giorni precedenti per cercare di capire dove si è presa la bestia e ricordare ogni persona incontrata. La forza di volontà, il morale, mantenere la lucidità: sono dei comandamenti per reagire. ‘Forza Omar stai su, ne risente il sistema immunitario sennò’, ‘leggi un libro’, ascoltare storie di Dogi e di prodotti tipici veneti dal mio compagno di stanza, oppure un po’ musica dallo smartphone alla sera. Altrimenti è impossibile pensare positivo, quando positivo lo sei tu ma in senso epidemiologico: leggere di 800/900 morti al giorno, di strage di anziani nelle case di riposo e tutto il resto, sentivo non mi avrebbe aiutato. Reagire di testa voleva dire già voltare pagina, o comunque desiderare con tutto se stesso che quel momento arrivasse presto”.
Quale è stato il momento più difficile? Cosa hai temuto di più da un punto di vista fisico e sanitario?
“Sono stati due: annunciare a fratelli e genitori la conferma della positività, coinvolgendoli nello sprofondare che ho provato in quei secondi, e la decisione da prendere sul dove scontare l’isolamento da positivo. Se posso una divagazione fuori tema per compensare e alleggerire un po’: il momento più bello, invece, è stato quando assaggiando dei cuori di carciofo a pranzo e ho sentito per la prima volta tornarmi il senso del gusto. Ah, i carciofi mi fanno schifo, ma mai come quel giorno mi sono piaciuti e ricorderò quella forchettata a vita. Fino al giorno primo avrei potuto magiare anche salviette al pari di caviale, sarebbe stato uguale per me”.
Che rapporti si sono instaurati con altri pazienti?
“Il mio compagno di stanza era un uomo di circa 80 anni, entrato in stanza che parlava a fatica e giù di tono, con un pace-maker al cuore. Egoisticamente, nei primi minuti, ho temuto di avere a distanza di due metri una di quelle situazioni da incubo che mi impressionavano leggendo e scrivendo delle principali vittime dell’epidemia. Mi vergogno solo a pensarci, oggi, ma ero disorientato e il rischio di crollare psicologicamente era una minaccia onnipresente. Come è andata? E’ entrato cinque giorni dopo di me, è andato a casa tre giorni prima, non ha mai avuto una linea di febbre né segni di polmonite ed è uscito dalla stanza praticamente cantando. Mi ha promesso una cena di pesce per quando entrambi saremo guariti e l’epidemia sarà un ricordo per tutti. Lo racconto volentieri perché si tratta di un messaggio di speranza: non è vero che ogni anziano che entra in un reparto Covid con altre patologie e un carico pesante di anni sulle spalle è spacciato. Anzi, in tanti vengono salvati, a patto che le cure siano tempestive. Lui è uno tosto, so tutto ormai dei suoi 80 anni di vita, siamo in contatto e sta bene, anzi perfino meglio di me. Ci siamo fatti compagnia, mi ha soprannominato “Leone” – le infermiere possono confermarlo – e non si ricorda nemmeno il mio nome di battesimo. Mi aveva chiamato così per la voracità con cui ripulivo i piatti una volta tornato l’appetito, dai carciofi in poi insomma. Si tratta dell’unico paziente con cui ho avuto rapporti diretti, per il resto solo sguardi incrociati di sfuggita e, purtroppo, dei letti senza vita visti passare in corridoio”.
Cosa vuol dire essere giornalista e trovarsi in una situazione simile?
“Lì dentro sei un paziente, nulla di più. Sei le tue speranze e le tue debolezze, sei i tuoi polmoni in difficoltà e il tuo cervello che li sprona, un cuore che batte anche se a volte troppo veloce, sei un bambino con gli occhi lucidi e un uomo con le “palle quadrate” che si risveglia pronto ad affrontare con coraggio perfino la terapia intensiva nel caso in cui le cose precipitino”.
Come è stato il rientro a casa?
“Mi sembra ieri. Invece è trascorso già un mese. Anniversario di matrimonio dei miei genitori: 59 anni insieme, proprio il giorno delle dimissioni. Ho fatto loro gli auguri dal piano terra, erano in alto tra finestra e terrazzino. C’è stato l’imbarazzo paralizzante di non poterli riabbracciare appena sono sceso dall’ambulanza. Feci anche un saltino per dimostrare di essere gagliardo (ho preso tutto da mio padre in questo) dimenticandomi completamente di avere un menisco fuori uso da mesi: me lo ha ricordato una fitta. Il resto? Occhi lucidi e groppo in gola. In tutto ciò eravamo felici e dalle loro rispettive abitazioni lo erano i miei tre fratelli e le loro famiglie, ne sono sicuro. Aspettative? In ospedale impari anche a viverti le emozioni come capitano, quando capitano, nel bene e nel male. Per il resto, una volta a casa e attrezzato per rimanere in isolamento ermetico in attesa dei tamponi, le giornate mi sono volate. Tante telefonate, alcune con incoraggiamenti ed altre di curiosità. Perfino panico ho percepito dall’altro capo del telefono, segno che quando a raccontarti il virus è una persona amica o vicina cambiano le prospettive”.
Cosa vorresti dire a chi non ha vissuto un’esperienza simile?
“Vorrei ‘prestargli’ i miei ricordi di quei 15 giorni se rientra nella categoria di chi non crede alla portata di questa bestia o di chi voleva riprendere la vita di sempre da subito infischiandosene degli altri. Fargli provare la stessa angoscia, fargli vedere gli occhi di un infermiere che entra in camera tua dopo aver assistito fino all’ultimo una persona morire in solitudine nella stanza accanto, sostituendosi per quanto possibile a una persona cara, magari tenendogli la mano indossando un doppio paio di guanti, una tuta, la visiera, mascherina e cuffia. O fargli sentire i colpi di tosse furiosi che udivo di notte come se qualcuno stesse soffocando, o le urla di chi perdeva il senno per la sofferenza atroce. Le scene di Bergamo non sono un film e, seppur in proporzione, insinuano la stessa ignobile morte provocata dal Covid-19 che i nostri infermieri e medici hanno toccato e vissuto in prima linea.
A chi, invece, ha capito la portata della tragedia che ha coinvolto tutto il mondo, e ha rispettato le regole di contenimento del contagio, dico grazie a nome mio e di tutto il personale sanitario che ho incontrato in ospedale. Meglio ci si comporta, prima finisce un incubo per loro, con cui sono costretti a confrontarsi ogni giorno. A tutti ricordo la storia del mio compagno di stanza: forse, sotto sotto, il vero leone è stato proprio lui”.