Un vicentino sulle orme di Marco Polo – #1 Da Venezia al Kirghizistan

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Fatima e sua madre nella sede della cooperativa (foto Daniele Binaghi 2017)

Da oggi con l’Eco, per un paio di mesi, andremo alla scoperta “in diretta” della Via della Seta. Un percorso a tappe grazie ad un caro amico vicentino che sta compiendo questo viaggio proprio in questi giorni e settimane.

Si tratta di Daniele Binaghi.

Daniele è, prima di qualsiasi altra cosa, un viaggiatore. Quando non è in viaggio abita a Castagnero. Ha studiato astronomia e per vari anni ha programmato computer. Poi, lasciato il lavoro, nel 2003 ha vagato per quattro mesi nel Sud-Est asiatico, apprendendo l’arte del viaggiare in solitaria e restando entusiasticamente abbagliato dalla moltitudine di esperienze che un’esperienza del genere può offrire. Nel marzo del 2004 ha quindi intrapreso un giro del mondo che lo ha portato, in quasi 30 mesi, a visitare 25 Paesi di tre continenti. Da alcuni anni lavora come accompagnatore turistico, collaborando con agenzie sia italiane che straniere. 

 

#1 Da Venezia al Kirghizistan

L’aereo parte da Venezia, ed è giusto che sia così: sto per intraprendere un viaggio verso il quasi ignoto, cercando il più possibile di seguire quella che un tempo veniva chiamata la Via della Seta, e non potevo che cominciarlo nella città di Marco Polo, l’uomo che ha per sempre legato il proprio nome a quell’itinerario che, per secoli, carovane cariche di merci preziose hanno percorso in entrambe le direzioni.

Il mio compito è un pelino più semplice: accompagnare due gruppi di turisti a visitare quei luoghi, per permetter loro di vivere almeno in parte quell’esperienza. Solo un pelino più semplice, però: quando la responsabile di Wild Frontiers, l’operatore turistico inglese con cui collaboro, me l’ha proposto, ci ho pensato su per due settimane, prima di accettare o rifiutare: dopo tutto, due mesi attraverso sei paesi dell’Estremo Oriente e dell’Asia Centrale non sono propriamente una “passeggiata de’ salute”. Alla fine han prevalso la curiosità ed il senso dell’avventura, motori che mi spingono da tempo in giro per il mondo. Così, eccomi qui, in Kirghizistan, a scrivere queste righe nel cuore della notte, all’interno di uno yurt. Perché di notte, e cos’è uno yurt, lo scopriremo più avanti, promesso.

Il volo Aeroflot, dopo una connessione di qualche ora a Mosca, mi porta fino alla capitale kirghiza, Bishkek, dove mi accolgono Rustam, la mia giovane guida, e Yuri, l’autista, ovvero le persone che mi accompagneranno in giro per il paese nei prossimi giorni, per un giro di ricognizione. Non sono stanco, e così accolgo con piacere la proposta di visitare un po’ la città prima di recarmi all’albergo.

Il Kirghizistan, un paese che molti non sanno neppure dove stia (cercatelo sulla mappa, giusto sopra la Cina, sulla sinistra), a quanto pare non esisteva neppure prima della creazione dell’Unione Sovietica: le popolazioni locali erano miste, kirghizi e kazaki e uzbeki vivevano tutti sullo stesso territorio, e fu solo Stalin che tracciò dei confini, a volte labili come il percorso di un fiumiciattolo, assegnando poi una terra diversa ad ogni etnia (stan = terra, quindi Kirghizistan è, letteralmente, la Terra dei Kirghizi). Avesse voluto fargli un favore, gli avrebbe pure dato un nome più facilmente pronunciabile, ché ogni volta che ai controlli doganali mi chiedevano la mia destinazione la lingua mi si inceppava sulle aspre consonanti; ma Stalin era un uomo molto occupato, e queste finezze lessicali non erano certo in cima alla sua lista di cose da sistemare.

Al momento del disfacimento dell’Unione, ogni paese si trovò a fare i conti con la propria indipendenza, e mentre ad alcuni andò abbastanza bene, per altri la vita non fu proprio facile; i kirghizi, fondamentalmente nomadi, hanno impiegato anni per raggiungere una democrazia ed una economia sufficientemente stabili, e quelli come Yuri che hanno vissuto in entrambi i sistemi rimpiangono ancora la disponibilità di lavoro, la sicurezza sociale, le ferie, la possibilità di avere una casa che il sistema sovietico assicuravano. “Da un giorno all’altro ci siamo trovati a dover cercare una casa, a dover fare gli straordinari per pagarla, a non poterci più permettere di andare in vacanza una volta all’anno; nessuno pensava più a te, e se ti ammalavi o finivi nella miseria non c’era più lo Stato ad aiutarti”, mi racconta mentre conversiamo, grazie alla continua traduzione di Rustam: Yuri parla russo, una delle due lingue ufficiali del paese.

Per Rustam è diverso: giovane, sposato e già con due figli, medico d’inverno e guida turistica d’estate, vede un paese che si sta aprendo all’esterno, che cerca di crescere seppure lentamente, che vive un Islam moderato affiancato al cristianesimo ortodosso, al buddismo, allo zoroastrismo; “tutti hanno una macchina, oggi, perché fondamentalmente siamo rimasti nomadi e, se prima andavamo a cavallo, ora vogliamo ancora qualcosa sotto il sedere”, dice ridendo davanti al traffico di auto, molte delle quali importate di seconda mano dal Giappone e quindi con la guida a destra.

Visitiamo il bazar Osh, dove si può trovare di tutto, e dove finalmente entro in contatto con i sapori delle spezie locali, con i volti che sono un mix di tratti asiatici e mongoli e slavi, con la vita frenetica di una capitale che contrasta con quella più lenta e compassata che troveremo nel resto del paese. Poi, in centro, passiamo davanti ai grandi palazzi costruiti in puro stile sovietico nel secolo scorso, con grandi statue di Lenin e Marx e Engels, mentre sotto le bandiere rosseggianti dal centro coloratissimo di giallo – a rappresentare il cerchio collocato in alto negli yurt e le 40 tribù che formano il popolo kirghizo (“kirg” vuole proprio dire quaranta) – dei bambini provano e riprovano le loro danze, a qualche giorno dalle grandi celebrazioni per la festa nazionale.

Solo verso le 7 di sera arrivo in hotel, saluto i miei compagni di viaggio e, seppure enormemente stanco – ho dormito 3 ore da che sono partito -, mi avventuro al buio della carente illuminazione pubblica fino ad un buon ristorante, dove un menu con fotografie e in inglese mi aiuta a scegliere la cena, ottima.

Il mattino dopo, fatta colazione, partiamo per la nostra esplorazione. La prima sosta è a Burana, dove una bella torre di mattoni e alcune collinette che nascondo mura antiche sono gli unici resti della cittadella fortificata di Balasagun, risalente all’XI secolo . Saliamo, lungo una claustrofobica e ripida scalinata che passa all’interno della torre, e dall’alto osserviamo la campagna circostante e le catene montuose, entrambe caratteristiche che contraddistinguono un po’ tutto il territorio del paese. Nei pressi, qualcuno ha riunito tutta una serie di reperti archeologici provenienti da varie località, incluse delle macine usate in passato per la farina e una serie di statue monolitiche, i Balbal, che rappresentano forse i regnanti di un tempo, tutti con una ciotola d’acqua in mano – simbolo di fertilità – e un coltello, molto simili a quelle che si possono vedere sulle rive del lago Titicaca in Bolivia. E, d’altronde, mi trovo ora nei pressi del lago Issyk-Kol, il secondo più grande lago alpino del mondo dopo, appunto, il Titicaca… chissà se c’è un nesso.

A pranzo sostiamo presso Koch Kor, ospiti di Fatima e della sua famiglia, che ci parlano della cooperativa che han messo su anni fa per aiutare le donne locali: Fatima, un impiego in banca, ha pensato di far rivivere la tradizione locale della creazione di abbigliamento, cappelli ed accessori in feltro, ed oggi più di 200 donne portano i loro prodotti nei locali della cooperativa dove vengono venduti ai turisti di passaggio. “Se una lavora bene, può guadagnare fino a 100 dollari al mese, che rappresentano un grande apporto all’economia casalinga”, ci spiega; ovviamente, bisogna darsi da fare, perché un singolo tappeto lungo 3-4 metri e largo 50 cm richiede un lavoro di un paio di mesi, tra preparazione del feltro, disegno e cucitura, tutto ovviamente fatto a mano. “Vorremmo allargarci, magari insediandoci in una delle vecchie fabbriche dismesse dopo la caduta dell’Unione Sovietica, ma ci vogliono soldi per farlo, e in questo paese gli investimenti di questo tipo non sono ancora supportati dallo stato; così, facciamo quel che si può, per il momento”, conclude Fatima, mentre la madre, vestita con gli abiti tradizionali ed un grande turbante in testa, annuisce fiera.

Poi, la strada comincia ad arrampicarsi, e dopo qualche ora arriviamo a 3016 metri, dove sulle rive del lago Song-Kol, il secondo per grandezza del paese, sorgono vari accampamenti di yurt, le tradizionali tende circolari dei nomadi. Un tempo fatte di vari strati di feltro posti sopra un’intelaiatura di legno, sono oggi un misto di tradizione e materiali moderni; all’interno però ci sono sono sempre pelli e tappeti, e tante coperte per tenere caldo la notte, quando la temperatura esterna scende a 2-3 gradi. I nomadi li trasportavano, smontati, a cavallo, quando si spostavano da un luogo ad un altro; oggi si usano pick-up e camion, e vengono allestiti prevalentemente per i turisti, che amano passarvi la notte. Il luogo dove ci fermiamo è molto grande, ci sono una ventina di yurt montati a semicerchio, con un campo centrale dove solitamente farebbero falò alla sera; i bagni, strutture metalliche a coprire delle fosse scavate nel terreno, sono non lontani, e lungo il percorso che li connette al campo si trovano anche dei deliziosi lavabi in legno e ceramica con un serbatoio interno per l’acqua. Due yurt fungono da sale da pranzo, e in un altro c’è la sauna, di cui approfitto dopo la cena, mentre i miei due compagni di viaggio vanno a dormire presto. Io ho poco sonno, un po’ per il jet-lag ed un po’ per l’altitudine, e mi soffermo a guardare il bellissimo cielo stellato; ma fa freddo, e mi rintano sotto le coperte, svegliandomi però a colpi durante la notte, pensando a quel che mi aspetta nei prossimi giorni…

Daniele Binaghi

(segui i suoi viaggi su pecorelettriche.it)