Via Pasubio, cuore cittadino tra le (troppe) vetrine vuote. La passeggiata di uno scledense

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La vetrina del bar "Due Mori" in via Pasubio a Schio
Alzi la mano chi ricorda i tramezzini del “Salottino”, storico baretto nel Portego Sareo, angolo con via Pasubio. I più buoni di Schio, si diceva. Stessa strada, venti metri in là in direzione Asilo Rossi: c’era il caffè Made in Italy, negli anni ’90 e primi 2000 meta di giovani per i popolari “shottini”, decisamente alcolici. Ora si guardi nella direzione opposta, verso l’incrocio pedonale (l’unico della città) fra via Pasubio e via Pasini. Sulla destra è indimenticabile la libreria Plebani, l’ampio seminterrato sopra la roggia Maestra con il caratteristico pavimento in pietra rosa, spazio che poi, per un certo periodo, ha ospitato un negozio di vestiti. Ricordi, appunto. Il verbo al passato è d’obbligo perché queste attività – ad eccezione degli spazi del Salottino, fortunatamente rimpiazzato da un negozio di abbigliamento – oggi sono solo delle vetrine vuote.
Vetrate spoglie e impolverate
Occhi spenti che si affacciano su quello che era il cuore pulsante di Schio. Nella strada che dal centro porta alla Lanerossi, in un passato neanche tanto lontano percorsa ogni mattina da decine di suole di operai e impiegati diretti al timbro d’ingresso della Fabbrica Alta, oggi quasi una bottega su due è uno spazio senza nulla all’interno. Ha chiuso perfino la storica birreria Due Mori, proprio a fronte della libreria Plebani: sulla porta campeggia un cartello, “Chiuso per lavori”. Per il locale che fu frequentato anche da Alessandro Rossi – gli “schiotti” conoscono bene quella foto in bianco e nero che ritrae il senatore barbuto a cavalcioni del bancone – si spera che quel cartello dica il vero, e che presto le porte tornino ad aprirsi.
Quattro conti.
Non è un’impressione soggettiva, è un dato di fatto. Abbiamo percorso la strada, dal parcheggio di fronte all’ex asilo fino a via Pasini. Nei circa trecento metri – 90 numeri civici – i negozi spogli sono una ventina. Contare per credere: noi sul lato pari abbiamo annotato quelle ai civici 82, 78, 74, 70, 68, 66, 48, 30, 26, 22, 18, 14, sul dispari 7, 19, 39, 73, a cui vanno aggiunti quelli chiusi per lavori o perché trasferiti in zone più frequentate dai clienti – come il negozio Gresele Radio, ora in zona industriale a Santorso. Al momento sono chiusi anche tre dei quattro bar, locali e pub che vivacizzavano la strada. Sopravvive – fortunatamente viva e vegeta, con prodotti freschi e apprezzati anche se in chiusura invernale – una gelateria all’angolo con via G.B. Conte, in salita verso la chiesetta di San Rocco.
Rimane ancora tanto, sia chiaro: erboristerie, negozi di moda e abbigliamento sportivo, punti vendita di calzature e di articoli edili, tatuatori, parrucchieri, una farmacia, tabacchini, due agenzie immobiliari, un negozio dove si aggiustano cellulari, attività originali come un punto vendita di teiere o come, pochi metri dentro via Conte, l’esposizione d’opere di un noto artista del ferro. Però, quasi metà botteghe hanno chiuso.
Colpe?
Chi può dirlo… Qualcuno, come l’imprenditore Paolo Trentin, nei giorni scorsi ha espresso la propria opinione in modo chiaro.
E ascoltando la gente in piazza e quella su quella (specie di) piazza virtuale che dovrebbero essere i social network, le colpe sono un po’ di tutti. Le elenchiamo, per puro spirito di cronaca: mancanza di parcheggi davanti ai negozi; mancanza di manifestazioni organizzate dal Comune o dai commercianti; affitti troppo cari; stranieri nordafricani in giro la cui presenza spaventa o disturba alcuni scledensi di nascita; shopping online che ha ucciso quello dal vivo; shopping nei centri commerciali che ha ucciso i negozi del centro; precariato dilagante che ha azzerato i consumi; quartiere del centro svuotato di abitanti… chi più ne ha, più ne metta. A parte l’assenza di parcheggi – che nel caso di via Pasubio e anche di via Pasini non è, vista la presenza del centinaio di posti gratuiti del park interrato di park Fogazzaro e del parcheggio della Fabbrica Alta – probabilmente nessuna delle ipotesi sopra elencate è del tutto sbagliata.
Ma forse – è l’impressione di chi scrive – c’è anche un’altra ragione. C’è un invecchiamento, mentale e psicologico oltre che fisico, della società nella città in cui siamo nati (o abbiamo imparato ad apprezzare). Improvvisamente – o magari è così già da qualche anno – a Schio non c’è più molta voglia: di organizzare, di fare, di sperimentare. Di trovarsi in piazza. Di dialogare dal vivo. Se è così, è una tendenza che sarà molto difficile da invertire.