Là dove nessuno osa: il racconto e le emozioni di chi soccorre nelle grotte
Se esistono degli angeli del soccorso, esistono di sicuro anche quelli che nella già encomiabile opera di salvataggio si avventurano là dove in pochi osano.
Sono direttamente i due volontari del Soccorso Alpino e speleologico regionale, Michela Zambelli e Giovanni Ferrarese a raccontare tutta la complessità e allo stesso tempo l’importanza del soccorso in grotta: profondista, da 10 anni componente del Soccorso speleologico di Vicenza, istruttrice del Cai Michela, coordinatore degli oltre 70 speleologi veneti Giovanni.
Due figure carismatiche per un mondo affascinante e pericoloso al tempo stesso: quello delle grotte vicentine, variegate e assai ricche anche nelle conformazione. Da quelle alpine con profondità di oltre mille metri, alle grotte labirintiche come quelle del Buso della Rana a Monte di Malo sino a quelle allagate nella Valle del Brenta. E se già un tecnico che si deve avventurare a soccorrere in queste cavità deve avere una formazione particolare, ancor più tosta è quella prevista per chi deve lavorare come subacqueo per cui è richiesta apposita abilitazione.
“Nasce tutto per passione – racconta Michela – per qualcosa di inesplorato dove gli altri non ci sono ancora arrivati: la voglia di scoprire nuove vie, spostando di volta in volta il traguardo. E non pensate che serva andar lontano: una delle grotte che più mi ha dato soddisfazione è il cosiddetto abisso Spiller, qui sul nostro Altopiano di Asiago”.
E se gli interventi di soccorso speleologico non sono molti, quelli che si verificano richiedono però un impegno elevato sia in termini di tempo che di difficoltà: “In prima battuta ci occupiamo di quello per cui siamo specializzati – spiega ancora Ferrarese – ma facendo parte del corpo nazionale, siamo ovviamente a disposizione per tutte le emergenze anche fuori dai confini regionali oltre che nazionali”.
E a proposito di soccorsi in altri paesi, è di settembre la missione che ha portato Michela a volare sino in Turchia collaborando con una task force di varie nazioni nel tentativo, fortunatamente riuscito, di estrarre vivo Mark Dickey, un noto speleologo statunitense in esplorazione nella Morca: “La collaborazione è stata fondamentale, eravamo il gruppo più numeroso. Non tutti sono entrati in grotta – riferisce la volontaria scledense – era necessaria anche una logistica al massimo, nelle comunicazioni via telefono, nella verifica della posizione di tutti, siamo stati anche in 82 all’interno della grotta. Quello che riporto a casa è l’esperienza a livello umano. E poi con me c’era tutta la mia stazione, pur essendo distanti, mi hanno dato tantissima carica. Momenti di grande intensità, ma anche di grande sintonia con un lavoro condotto a squadre divise per nazionalità oltre che per conoscenza diretta, al fine di poter operare con la massima sinergia. Noi nel caso specifico abbiamo agito nel turno che da -700 ha portato l’esploratore americano ha – 500 metri: un livello, quello assegnatoci, dove ci siamo trovati ad agire in una fessura molto stretta”.
Per diventare speleo, disciplina che per molti è soltanto un hobby, esiste un percorso di avvicinamento, ma poi a contare sono le esperienze sul campo, ognuna diversa e motivo di arricchimento: “Se dovessi definire quella che più mi è rimasta dentro nella mia ormai trentennale esperienza – confessa invece Giovanni – sicuramente direi quella del 2014 nella grotta Riesending-Schachthöhle in Baviera dove, dopo oltre 11 giorni abbiamo riportato in superficie uno speleologo di Stoccarda vittima di un grave incidente alla profondità di -980 metri. Una casistica simile a quella turca: situazioni complesse che però ripagano delle grandi fatiche profuse”.
Non tutti i casi però finiscono bene, ma il desiderio e la voglia di portare aiuto prevalgono sempre e spronano nel proseguire un’attività preziosa e insostituibile: “Stare vicino alla persona che hai appena salvato – evidenziano assieme i due soccorritori – fa affiorare una parte emotiva che in qualche modo influisce nella componente tecnica, ma in modo assolutamente positivo, quasi un supplemento di forza per non mollare. Anche imbarellato, il ferito ti osserva, lo vedi che si fida e crede in te, segue ciò che fai. La tua vita in quegli istanti è nelle tue mani e quando il recupero finisce, la gioia di aver contribuito non ha eguali”.