L’orazione del 4 novembre diventa lezione di vita: il professor Nardello scuote e commuove
“I venti di terrore e di guerra che infuriano scuotono l’albero dell’umanità fino a metterne in forse la sopravvivenza: guerre ce ne sono state tante, ma le molte foglie cadute non hanno portato frutto”.
Sono parole a cui difficilmente si può rimanere indifferenti quelle pronunciate stamane da Mariano Nardello, professore di lettere nei licei scledensi e già vicepresidente dell’Accademia Olimpica di Vicenza, considerazioni lette nell’orazione ufficiale tenuta su invito dell’amministrazione comunale di Caltrano e del Sindaco Luca Sandonà suo ex allievo per le celebrazioni del 4 Novembre. Famiglie e anche molti giovani, oltre alle autorità civili e religiose, in silenzio ad ascoltare attenti passo dopo passo versi scolpiti su una coscienza di un Paese veloce a dimenticare, quasi il caso non fosse suo, quasi della fine di quella guerra ricordata oggi, sia rimasto solo il senso di una vittoria per Trento e Trieste: “Ungaretti – continua ancora Nardello citandolo in “Veglia” – diceva di non essere mai stato tanto attaccato alla vita. Ma quale vita? Come quella di un giovane Renato Lazzarini che scriveva alla mamma dal fronte, raccontandole un’esistenza in trincea senza passato e soprattutto senza avvenire, vissuta giorno per giorno.
E lì si è fatta l’Italia: quella di giovani contadini, pescatori, manovali e studenti provenienti dalla Calabria e dalla Sardegna, oltre che dal resto delle regioni settentrionali, come nel caso dei nostri Altopiani, finiti braccio a braccio nelle trincee a condividere il dolore dell’incertezza ma anche la voglia di salvare un Paese, quasi inconsapevoli dei destini in gioco. La bellezza del mischiarsi e del ritrovarsi un popolo, in mezzo alla fredda crudeltà di un evento tragico, dal quale molti non faranno ritorno.
La bestialità di una guerra dove si afferma il diritto della forza sulla forza del diritto, un sonno della ragione che genera mostri: ognuno che sia guidato da raziocinio non potrebbe che volere anche per gli altri il bene che appetisce per sé”.
Un baratro delle coscienze ed una violenza inumana che sarebbe però sbagliato declassare come responsabilità di pochi: “Spesso sentiamo che tutto è causa di qualche pazzo – tuona il 78enne professore di Schio – ma se prendiamo ad esempio persone come Hitler o altri anche in epoche più recenti, non possiamo certo affermare che abbiano compiuto quelle atrocità da soli”.
Significativo anche il passo dedicato alle conseguenze di conflitti, sino a quelli tutt’ora in corso, dove il prezzo di vittime civili appare un abominio al quale si rischia tristemente di abituarsi in un’escalation senza fine: “Scriveva Don Milani – ha concluso Nardello rivolgendosi ai ragazzi in un’accorata esortazione a leggere – che nella prima guerra mondiale i morti furono 5% civili 95% militari (si poteva ancora sostenere che i civili erano morti «incidentalmente»).
Nella seconda 48% civili 52% militari (non si poteva più sostenere che i civili fossero morti «incidentalmente»). In quella di Corea 84% civili 16% militari (si può ormai sostenere che i militari muoiono «incidentalmente»). E oggi? Viva l’Italia, ma soprattutto viva la pace”.
Tra le cose citate, pubblichiamo integralmente la lettera di una delle figure simbolo della tragica battaglia per la conquista dell’Ortigara, il torinese Adolfo Ferrero. Appena ventenne, presentendosi la morte che di fatto avvenne l’indomani, lascia ai familiari una delle missive più toccanti scritte durante la Grande Guerra. Verrà però rinvenuta solo nel 1958, durante il ritrovamento della salma del suo attendente, anche lui colpito a morte, al quale era stato dato l’incarico di recapitarla.
Cari genitori, scrivo questo foglio nella speranza che non vi sia bisogno di farvelo
pervenire. Non ne posso fare a meno. Il pericolo è grave, imminente. Avrei rimorso se
non dedicassi a voi questi istanti di libertà, per darvi un
ultimo saluto.
Voi sapete che odio la retorica. No, no, non è retorica
quella che sto facendo. Sento in me la vita che reclama la
sua parte di sole; sento le mie ore contate, presagisco una
morte gloriosa, ma orrenda.
Fra cinque ore qui sarà un inferno. Fremerà la terra,
s’oscurerà il cielo, una densa caligine coprirà ogni cosa e
rombi e boati risuoneranno fra questi monti, cupi come le
esplosioni che in questo istante medesimo sento in
lontananza.
Il cielo si è fatto nuvoloso: piove. Vorrei dirvi tante cose.
tante. ma Voi ve l’immaginate. Vi amo tutti, tutti. Darei
un tesoro per potervi rivedere. Ma non posso. Il mio
cieco destino non vuole. Penso in queste ultime ore di
calma apparente, a te, Papà, a te, Mamma, che occupate il
primo posto nel mio cuore; a te, Beppe, fanciullo innocente, a te, Nina. Che debbo dire?
Mi manca la parola: un cozzar di idee, una ridda di lieti e di tristi fantasmi, un
presentimento atroce mi tolgono l’espressione. No, No, non è paura. Io non ho paura!
Mi sento commosso, pensando a Voi, a quanto lascio, ma so di mostrarmi forte dinanzi
ai miei soldati, calmo e sorridente. Del resto anch’essi hanno un morale elevatissimo.
Quando riceverete questo scritto, fattovi recapitare da un’anima buona, non piangete.
Siate forti come avrò saputo esserlo io.
Un figlio morto in guerra non è mai morto. Il mio nome resti scolpito nell’animo dei miei
fratelli; il mio abito militare, la mia fidata pistola (se vi verrà recapitata), gelosamente
conservati, stiano a testimonianza della mia fine gloriosa.
E se per ventura mi sarò guadagnata una medaglia, resti quella a Giuseppe. O genitori,
parlate, parlate, fra qualche anno, quando saranno in grado di capirvi, ai miei fratellini,
di me, morto a vent’anni per la Patria. Parlate loro do me; sforzatevi di risvegliare in loro
il ricordo di me. Che è doloroso il pensiero di venire dimenticato da essi. Fra dieci,
vent’anni forse non sapranno più d’avermi avuto fratello. A voi mi rivolgo.
Perdono, perdono vi chiedo, se vi ho fatto soffrire, se v’ho dato dispiaceri. Credetelo, non
fu per malizia. la mia inesperta giovinezza vi ha fatto sopportare degli affanni: vi prego di
volermi perdonare. Spoglio di questa vita terrena andrò a godere di quel bene che credo
di essermi meritato.
A voi, Babbo e Mamma, un bacio, un bacio solo che dica tutto il mo affetto.
A Beppe, a Nina un’altro ed un monito: ricordatevi di vostro fratello. Sacra è la religione
dei morti. Siate buoni. Il mio spirito sarà con voi sempre.
A Voi lascio ogni mia sostanza. É poca cosa. Voglio però che sia da Voi gelosamente
conservata. A Mamma, a Papà lascio.il mio affetto immenso. É il ricordo più stimabile
che posso loro lasciare. Alla zia Eugenia, il Crocefisso d’argento; al mio zio Giulio, la mia
Madonnina d’oro. La porterà certamente. La mia divisa a Beppe, come le armi e le robe
mie.
Il portafoglio lo lascio all’attendente.
Un bacio ardente d’affetto dal vostro aff.mo Adolfo