Domenico Quirico e il “popolo nuovo”: “Chi migra non è più la persona che era partita”
Lo iuis soli, i salvataggi dei migranti nel Mediterraneo, il terrorismo, l’immigrazione di cui si parla sempre e solo in termini di sicurezza, senza tenere conto del fatto che è un fenomeno di portata storica e senza considerare chi, la grande maggioranza dei migranti, vive integrato nelle nostre comunità. Sono temi sempre attuali, su cui la cronaca interpella ogni giorno le nostre coscienze ma attorno ai quali è complesso avanzare una riflessione articolata e con cognizione di causa. Un’opportunità di approfondimento, qualche settimana fa, c’è stata a Sarcedo grazie ad un incontro pubblico con il giornalista Domenico Quirico, grande esperto di Africa e Medio Oriente.
“Sono uno che scrive e fissa nella memoria pezzi delle vite degli altri” si autodefinisce Quirico, invitato dall’amministrazione comunale di Sarcedo per parlare di giornalismo, di migrazioni, di Isis e anche di Italia. Astigiano, 67 anni, Quirico è infatti uno dei più importanti inviati di guerra italiani. Da sempre in forza al quotidiano torinese de La Stampa, ha raccontato il Sudan, il Darfur, la carestia e i campi profughi nel Corno d’Africa, l’Esercito di Resistenza del Signore in Uganda, la guerra in Mali, la Somalia. Ha seguito le Primavere Arabe, dalla Tunisia all’Egitto, ed è stato più volte in Libia per testimoniare la fine del regime di Gheddafi. Ha inoltre coperto più volte la guerra in Siria.
Nell’agosto 2011, nel tentativo di arrivare a Tripoli, è stato rapito in Libia insieme ai colleghi del Corriere della Sera e Avvenire: nel sequestro è stato ucciso il loro autista e dopo due giorni i giornalisti sono stati liberati (“Non è stato un rapimento, volevano semplicemente linciarci in quanto occidentali” ha raccontato). Due anni dopo, il 9 aprile 2013, il secondo e più lungo rapimento in Siria: per ben 152 giorni, fino all’8 settembre, rimane insieme a un professore belga nelle mani dei ribelli, subendo anche due finte esecuzioni. “In Siria – ha poi raccontato – ho conosciuto il male assoluto”. Nel 2011 aveva viaggiato con 112 tunisini sua piccola barca malandata fino a Lampedusa (dove la barca è affondata) e in anni più recenti anche viaggiato dai villaggi del Niger ad Agadez in camion per raccontare cosa spinge tanti giovani africani a partire.
Il suo è uno sguardo netto, disincantato e non ideologico. Sulle migrazione ritiene che “non si debba pensare al fenomeno migratorio come a un monolite, perché esso cambia nel tempo e nello spazio e ogni storia e motivo di migrazione è diverso dall’altro”.
“Partire, in molti paesi, è un rito di iniziazione, chi non parte è considerato un fallito. Quello dei migranti – spiega Quirico – è un popolo nuovo. La domanda più inutile è chiedere a un migrante ‘di dove sei’, perché il viaggio dura dai tre ai cinque anni: non sono più le persone che sono partite, lungo la strada, brandello dopo brandello, hanno lasciato indietro la loro identità, perdendola per sempre. Per questo non hanno senso i rimpatri. Difendere i diritti dei migranti non ha niente a che fare con il buonismo, ma con la nostra essenza di occidentali, è ciò che ci distingue da altri popoli del mondo”.
Netto anche il suo modo di intendere il mestiere di giornalista e inviato: “Io non posso permettermi di raccontare pezzi delle vite degli altri – sostiene parlando del suo lavoro – se non condivido almeno per un po’ la loro condizione. Quello che scrivo non può essere solo un tocco di colore, deve essere vissuto”.