Aumento costi energia, Lorenzoni:” Creare nuove fonti dal sole e dal vento per salvare le aziende”
Ad ottobre gli aumenti di energia elettrica e gas hanno subito notevoli rincari. Ogni famiglia ha visto un aumento del 29,8 per cento per quanto riguarda luce mentre per il gas naturale ha pesato per un 14,4 per cento in più rispetto ai mesi precedenti. Aumenti che erano stati preventivamente comunicati dal Ministro della Transizione Ecologica, Roberto Cingolani e che puntualmente sono arrivati in bolletta nel trimestre ottobre-dicembre.
Ma a cosa sono dovuti questi aumenti? Con l’arrivo della pandemia e il conseguente blocco delle attività produttive la richiesta di energia elettrica e gas si è rallentata tanto da non necessitare di scorte da parte delle aziende distributrici. Quando il volano si è rimesso in moto con l’aumento della produzione da parte delle aziende, con conseguente richiesta di materia prima, i fornitori si sono ritrovati a non coprire l’intera domanda trovandosi a dover rapire velocemente luce e gas ma trovando il primo sensibile aumento dei costi che si è protratto fino allo scorso ottobre quando i produttori hanno dovuto far fronte all’aumento rincarando i prezzi ai propri clienti.
“Nel secondo semestre 2021 – dichiara Arturo Lorenzoni, docente di Economia dell’Energia all’Università di Padova– il mondo dell’energia ha sperimentato impennate dei prezzi che si erano viste solo nel 1973 con la guerra del Kippur o nel 1979 con la rivoluzione islamica in Iran. C’è un elemento nuovo: ora è il gas a trascinare i prezzi e non il petrolio, la cui domanda cresce meno delle attese. L’impennata è frutto di una coincidenza di fattori abbastanza peculiare: ripresa della domanda dopo lo stop dovuto alla pandemia (–3,36% a livello mondiale nel 2020 secondo la World Bank, il peggior risultato degli ultimi 60 anni almeno), tensioni geopolitiche con la Russia, forte crescita della domanda di gas cinese, scarso livello degli stoccaggi, riempiti meno del solito per i prezzi elevati già nell’estate 2021″.
Tutti questi fattori, trovandosi in una combinazione complessa, hanno dato vita ad una serie di complicazioni per il mercato. Il mondo produttivo industriale si regge da sempre sull’utilizzo di energia acquistata, essendo ancora poche le realtà che si sostengono con energia pulita autoprodotta, se questo trend fosse in proporzione inverso probabilmente la situazione odierna sarebbe diversa. Ad oggi si registra grande incertezza tanto che molte imprese manifatturiere sono sul punto di non ripartire a gennaio, proprio per i costi lievitati dell’energia.
“È vero – prosegue Arturo Lorenzoni – che il prezzo del gas in Europa, dopo aver toccato il valore record di 180 €/MWh il 21 dicembre è sceso oggi 29 dicembre a 102 €/MWh, un -45% in una settimana. E si è ridimensionato anche il prezzo dell’energia elettrica, che in Italia si è dimezzato dopo i picchi folli del 21 e 22 dicembre a 400 €/MWh. Ma le bollette di cittadini e imprese per il meccanismo di indicizzazione ai prezzi di mercato, sconteranno in gennaio la crescita degli ultimi mesi. E queste montagne russe sono costose. È abbastanza scoraggiante che a 50 anni dalla prima crisi petrolifera del 1973, ancora siamo esposti agli stessi rischi, con una dipendenza altissima da pochi fornitori di materie prime energetiche, siano questi i paesi del Golfo Persico per il petrolio o la Russia per il gas. Purtroppo non ci sono soluzioni immediate per il prossimo trimestre, ma se guardiamo un po’ più in là le alternative ci sono”.
“Passano proprio attraverso l’affrancamento dai combustibili fossili, -continua il docente dell’Università di Padova – con interventi sulla riduzione della domanda, su cui ci sono margini davvero importanti, e con contratti a prezzi fissati con impianti a fonti rinnovabili, che iniziano a diffondersi in Europa e possono dare forniture a condizioni certe alle imprese. E facciamo attenzione a non inseguire soluzioni apparentemente sensate, ma impossibili nell’organizzazione attuale dei mercati: l’avvio degli esigui giacimenti di gas in territorio nazionale, auspicato da molti come risposta alla crisi attuale, a nulla gioverebbe al contenimento dei prezzi. È quantomeno ingenuo pensare che operatori privati come ENI potrebbero impegnarsi a gestirli con prezzi calmierati. I loro azionisti di borsa non lo accetterebbero. Ed utilizzare i fondi raccolti con le aste per i permessi di emissione di CO2, 1,27 miliardi nel 2020, destinati per legge ad azioni per la gestione del cambiamento climatico, per ridurre l’onere dell’energia alle imprese per un mese o due, è a mio avviso un errore strategico, da un sollievo a breve, ma non da le risposte strutturali di cui necessitiamo”.
“La soluzione -conclude Lorenzoni – dunque non è nel frenare la transizione (o meglio, svolta, se vogliamo che realmente sia efficace) energetica, ma nell’accelerarla, sostituendo i costi variabili dei combustibili fossili con costi di investimento nel nostro territorio. Con benefici anche sull’occupazione e sull’ambiente. Il costo sociale del non agire rischia di divenire veramente insostenibile. E sorprende parecchio che il mondo delle imprese chieda aiuti per la riduzione dei costi correnti e non colga invece le opportunità che possono creare dalla costruzione di nuove filiere italiane per le forniture di energia pulita dal sole e dal vento. Se i fondi del PNRR saranno utilizzati per assicurare produzioni industriali nazionali nei settori della nuova economia saranno spesi nella direzione del debito “buono” indicato dal presidente Mario Draghi, altrimenti rimarremo esposti ai rischi di sempre”.