Inchiesta test rapidi: rinviati a giudizio il microbiologo Rigoli e la vicentina Patrizia Simionato
Assume sempre più caratteri giudiziari la vicenda che contrappone lo scienziato (e ora senatore del Partito Democratico) Andrea Crisanti e il presidente della Regione del Veneto Luca Zaia, e assume le sembianze di Roberto Rigoli, ex primario della microbiologia di Treviso, e della ex direttrice (di origini vicentine) di Azienda Zero, Patrizia Simionato.
I due infatti sono stati rinviati oggi a giudizio e andranno quindi a processo per l’acquisto dei tamponi rapidi, largamente usati dalla Regione per combattere la seconda ondata di Covid-19 quando, nell’autunno 2020, Zaia scaricò proprio Crisanti. E l’indagine è partita proprio da un esposto e da uno studio di Crisanti, con i suoi dubbi sull’efficacia dei test antigenici.
Il giudice Maria Luisa Materia oggi, venerdì 10 febbraio, ha rinviato entrambi a giudizio al 22 febbraio 2024, accogliendo quindi la richiesta del sostituto procuratore Benedetto Roberti. Rigoli e Simionato andranno a processo quindi, e con tempi lunghi peraltro: la prima udienza è fissata fra un anno, ossia il 22 febbraio del 2024. Le accuse sono falso ideologico e turbata libertà di scelta del contraente, per il solo Rigoli anche il depistaggio.
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La vicenda origina nell’estate del 2020, quando iniziano ad acuirsi le tensioni fra Crisanti e Zaia: quest’ultimo toglie al microbiologo dell’Università di Padova (era direttore dell’unità complessa di Microbiologia e microbiologia clinica nonché direttore della stessa scuola di specializzazione) il coordinamento di tutte le microbiologie venete, in trincea per combattere la pandemia, e lo affida a Rigoli, che insieme ai vertici regionali decide di basare la sua battaglia al virus sui test antigenici rapidi: l’Azienda Zero diretta allora dalla Simionato, ne acquista dalla ditta Abbot due partite per un totale di 480mila kit e un costo complessivo per la Regione di ben 2 milioni e mezzo di euro.
Una scelta che coincise, va ricordato, con una esplosione di casi (il Veneto nella seconda ondata, pur senza incappare in un nuovo lockdown, fu fra le regioni più colpite).
Quella delibera sostiene, in sintesi, che andavano testati, mentre Rigoli ammette di averlo fatto, ma poi è costretto a corregge l’informazione. La tesi della difesa era che, avendo i kit il marchio CE-Ivd, cioè la garanzia scientifica che il prodotto aveva superato tutte le prove richieste, altri test non servivano. Una tesi che però non ha convinto il giudice.