Sfruttate decine di lavoratori marocchini: arrestato un connazionale al rientro in Italia
I carabinieri del nucleo di tutela del Lavoro hanno concluso nel corso della mattinata di oggi l’operazione denominata “Polvere di Stelle”, culminata con l’arresto di un 27enne di nazionalità marocchina ora posto in custodia domiciliare. Il nordafricano era appena sbarcato in Italia con un volo aereo a Bergamo, allo scalo internazionale di Orio al Serio, di rientro dalla madrepatria. Si tratta del quinto individuo in manette per una grave storia di caporalato con cornice le campagne anche del Bassovicentino.
Insieme ad alcuni collaboratori – quattro soggetti stranieri e uno italiano, una consulente del lavoro vicentina con un ruolo chiave nella vicenda – considerati complici della condotta illecita e di rilevanza penale, era stato denunciato per sfruttamento del lavoro ai danni di decine di connazionali.
L’indagine in corso trova radici lontane nel tempo a quasi tre anni fa, a maggio 2019, con le prime misure di custodia datate invece novembre 2020. Già allora tre soggetti maschi di nazionalità marocchina, padre e due figli adulti, e due donne, una albanese che fungeva da intermediaria e una professionista italiane di professione consulente del lavoro, venivano raggiunti da una notifica di denuncia per associazione a delinquere. Il 27enne si era reso irreperibile, sfuggendo all’arresto una volta emesso l’ordine di custodia. Una storia già alla ribalta delle cronache locali di allora, per le modalità di sfruttamento in mansioni da braccianti su terreni coltivati e in attività di allevamento bestiame a cui venivano sottoposti più lavoratori africani, spesso irregolari attirati con il miraggio di un permesso di soggiorno
Il blitz dell’ispettorato del lavoro aveva interessato una molteplicità di aziende agricole del Veneto, nelle province di Vicenza, Verona e Padova, con centro nevralgico individuato dagli investigatori presso una cooperativa operante nel settore agricolo, con sede a Cologna Veneta (VR). Lì venivano reclutati a bassissimo costo cittadini marocchini da impiegare come manodopera, mentre l’unica italiana della presunta associazione a delinquere si occupava delle “carte” con l’obiettivo di evadere gli oneri contributivi da versare in favore dei dipendenti, spesso persone in stato di estremo bisogno inoltre senza alcuna tutela.
La retribuzione offerta venne definita come “palesemente inferiore a quella contemplata dai contratti collettivi regionali e nazionali”. Meno della metà, in pratica e secondo le stime degli ispettori, di quanto avrebbero avuto diritto a guadagnare per il loro lavoro e sudore tra i campi. A suscitare reazioni ancora più sdegnate, a quei tempi, il fatto che i lavoratori erano ospitati in alloggi fatiscenti, privi di condizioni di igiene minime e in spazi angusti senza riscaldamento ed energia elettrica, anche allo scopo di evitare controlli di polizia. Un modus operandi noto, costellato di infrazioni anche in tema di sicurezza sul posto di lavoro, risparmiando anche sui dispositivi di protezione individuali.
Tutto ciò consentiva infine di abbattere i costi e quindi di offrire i prodotti di un manipolo di aziende a prezzi più bassi della concorrenza, “falsando” il libero mercato e provocando danni ad altri operatori agricoli onesti. Assai pesante in particolare la posizione della donna consulente del lavoro, che a quei tempi collaborava con un noto studio di Vicenza. L’arresto di uno dei due figli dell’imprenditore agricolo marocchino s’inserisce quindi nel solco scavato, è proprio il caso di dirlo, da quell’inchiesta tutt’ora aperta.