Situazione esplosiva in carcere Vicenza. Angiulli (Uspp): “Penitenziari diventati scuola di crimine”
È un argomento di cui si parla poco o per nulla. Si preferisce relegarlo nel dimenticatoio. Quando invece le condizioni del sistema carcerario dovrebbero godere di ben maggiore rilievo nel dibattito pubblico. Il corretto funzionamento dei penitenziari, infatti, contribuisce in modo determinante al benessere e alla sicurezza della società. Ciò che oggi non avviene o si verifica solo parzialmente, con le carceri che attraversano una vera e propria stagione di crisi. Leonardo Angiulli, segretario nazionale dell’Unione Sindacati Polizia Penitenziaria (Uspp), ne ha parlato con Mariagrazia Bonollo e Gianni Manuel.
“Da quando faccio attività sindacale – esordisce ai microfoni di “Parlami di Te” -, dico che le carceri italiane dovrebbero essere grandi palazzi di vetro, in modo che tutti dall’esterno possano vedere la loro realtà. I cittadini non hanno la possibilità di conoscere quello che accade all’interno delle loro mura. Il palazzo di vetro darebbe l’opportunità di vedere quella che è una città nella città. Perché un carcere, al suo interno, in fin dei conti è una città”.
“Il carcere di Vicenza – entra nel dettaglio il segretario sindacale – è stato aperto nel 1986, all’epoca ospitava circa 250 detenuti. Adesso siamo attorno ai 370-380 detenuti, solo uomini. La struttura, costituita da un settore di reclusione, dove ci sono i detenuti che devono scontare una pena definitiva, e uno circondariale, dove troviamo le persone che sono in attesa di giudizio. Il problema è che oggi abbiamo un sovraffollamento, a livello nazionale, da paura. Quello della stessa casa circondariale di Vicenza è di circa il 144%. Questo siginifca che in una cella, anziché avere una sola persona in nove metri quadrati, ce ne sono due o anche tre. Lo Stato non riesce più a sopperire agli ingressi dei detenuti”.
“La conseguenza è che lo Stato – aggiunge -, per far fronte a questa situazione, ha pensato di aprire il carcere: significa che le sezioni detentive vengono aperte, divenendo un grande corridoio dove tutti possono camminare. In tali circostanze, le persone più deboli vengono sopraffatte da quelle più forti. Di conseguenza, all’interno degli istituti penitenziari italiani, si è aperta, come dico io, un’altra scuola di crimine. Questo ha danneggiato il sistema penitenziario”.
Gli aspetti psichiatrici
A tutto questo, si aggiunge un ulteriore elemento di criticità: “La chiusura degli ospedali psichiatrici ha comportato un aumento delle aggressioni ai danni dei poliziotti penitenziari. Che già sono pochi: lo Stato dovrebbe avere in organico circa 57mila unità, quando invece oggi siamo in 38mila. A fronte di una popolazione detenuta a livello nazionale che ammonta a circa 168mila persone ristrette. In queste circostanze, essere agente comporta mille difficoltà oggettive. Ci si ritrova a gestire persone che sono problematiche. Il ruolo della polizia penitenziaria è quello di garantire la sicurezza, non curare questi detenuti”.
.E quelli sanitari
Anche sul piano sanitario non mancano le difficoltà: “La medicina penitenziaria è stata chiusa nel 2014. Questo è un problema immenso, perché c’erano medici qualificati che conoscevano i detenuti. Oggi abbiamo un turnover di medici che arrivano dall’azienda sanitaria berica e si avvicendano. Quindi non c’è una conoscenza diretta del paziente. Si ricorre quindi enormemente alle visite urgenti, che comportano spostamenti dalla casa circondariale agli ospedali togliendo agenti al carcere. Sono altre risorse che vengono sottratte momentaneamente all’organico”.
Il problema delle risorse umane
“L’amministrazione – continua Angiulli – dovrebbe davvero pensare al ritorno della medicina penitenziaria. Questo consentirebbe di avere conosenza diretta delle persone che sono all’interno degli istituti e quindi evitare lo spreco di risorse”. Una condizione, quella delle carceri italiane, che rende più difficile trovare nuove leve per i ranghi della polizia penitenziaria: “Molti nuovi agenti, vedendo la realtà del carcere, danno le dimissioni dopo neanche tre mesi di servizio. Vedono le difficili condizioni di lavoro e il dato sulle aggressioni fa riflettere. Quest’anno a Vicenza siamo arrivati a 24 aggressioni denunciate ai danni della polizia penitenziaria: due al mese. Questo comporta uno stress tale che molti agenti optano per il passaggio ad altri ruoli”.
Come risolvere tale situazione di crisi? “Bisogna ritornare indietro di vent’anni – dichiara il segretario -. Quando c’era la medicina penitenziaria e il carcere era chiuso senza il sistema aperto di oggi. Lì c’era rieducazione, perché si dovevano rispettare tutte le regole imposte dall’ordinamento penitenziario. Oggi, con il sistema aperto, si fa quel che si vuole approfittandosi dei più deboli. Bisognerebbe costruire inoltre strutture nuove, che consentano di avere più spazi. E poi bisognerebbe assumere personale. A Vicenza, per esempio, da quasi un anno il comandante del reparto, a scavalco, viene da un altro istituto. Quindi vengono a mancare i vertici. Vent’anni fa non c’era questo problema. Ogni penitenziario aveva il suo comandante. Oggi, con la promozione alla dirigenza, egli lascia l’istituto e il suo posto rimane vacante”.
Gabriele Silvestri